La copertina del libro.

Il Maestro di Aleksandr Men’

Il romanzo "Il Maestro e Margherita" coinvolge i lettori russi degli anni Sessanta per la sua profondità: dissacrazione e forza religiosa insieme. Allora come oggi l'interpretazione "ardita" di padre Aleksandr svela molto dell'attualità di Bulgakov
Giovanna Parravicini

Il romanzo di Bulgakov sconvolse i lettori russi degli anni 60 e 70 per la dissacrazione della mitologia sovietica e la forza religiosa che possedeva, ma anche per l’«ereticità» del suo approccio al cristianesimo. Al dibattito che seguì la pubblicazione, nei circoli del samizdat, parteciparono celebri pensatori, dissidenti, scrittori cristiani tra cui Anatolij Levitin-Krasnov, Aleksandr Solženicyn e padre Aleksandr Men’.
Quest’ultimo, allora giovane e sconosciuto prete di provincia, nella sua persona e nel suo lavoro pastorale tornava a far risplendere dopo decenni di soffocamento la grandezza della ragione umana - una ragione che scorge ovunque le tracce di una Presenza in grado di colmare la sete di felicità e di infinito dell’uomo. Sarebbe stata proprio questa scoperta a renderlo affascinante agli occhi di migliaia, milioni di persone, mentre l’ideologia sovietica annunciava trionfalmente un progresso costruito sulla riduzione della persona umana. E forse per questo qualcuno ha armato la mano che gli ha tolto la vita il 9 settembre 1990. La contemporaneità di Cristo permetteva a padre Aleksandr di valorizzare tutti gli aspetti della cultura umana, di cogliere il soffio dello Spirito in ogni cosa. Ad esempio, di rileggere arditamente in chiave religiosa Il Maestro e Margherita. Perché, come asseriva con convinzione, «tutto ciò che è bello viene da Dio. L’uomo può non riconoscerlo, può ritenersi ateo, ma se crea qualcosa di bello, questo è comunque un dono di Dio, un dono di Dio offerto anonimamente… Possiamo essere certi che tutto ciò che vi è di perfetto e di splendido nella natura e nell’arte passerà nel Regno di Dio, dove la bellezza e l’armonia si affermeranno pienamente».
Nel febbraio 1971, dunque, di fronte allo sconcerto dei suoi interlocutori che vedevano nel Jeshua Ha-Nozri del romanzo un personaggio troppo lontano dal Cristo storico e ne restavano scandalizzati, padre Aleksandr individua e propone alcune chiavi interpretative che conservano grande attualità ed echeggiano, oltre alla sua fine sensibilità artistica, interrogativi cruciali e drammi dell’umanità contemporanea.
Un primo livello da lui individuato è il fondamento biblico: «Questo romanzo somiglia al Libro del Genes Il Creatore, naturalmente, è presente dappertutto. Non vi è luogo dell’Universo dove non esista la sua Presenza. Laddove Egli non c’è, c’è il non essere. Ma perché lo spirito umano si sviluppi, sono necessarie particolari “crisi”, che nella tradizione biblica chiamiamo “Il Signore ha visitato”. A ben riflettere, queste parole sono antropomorfe: assumono, cioè, una configurazione umana. Cosa significa “ha visitato”? Si tratta, naturalmente, di un’immagine. Significa che Egli ci pone di fronte a una determinata prova. La storia di Abramo e dei tre pellegrini è la storia di una Visita misteriosa. Dio è venuto a verificare in che stato si trovi il mondo, in questo caso le città di Sodoma e Gomorra. L’autore biblico non era tanto ingenuo da pensare che Dio non vedesse dall’alto ciò che stava accadendo in quell’abominevole città e ciò che facevano i sodomiti. Si tratta piuttosto di una crisi, di una prova, Dio bussa alla porta e sollecita l’uomo: proprio di qui hanno inizio tutti i racconti che hanno come soggetto una visita miracoloso. Anche Il Maestro e Margherita è un libro su una visita miracolosa. Qualcuno viene inviato da altri mondi per mettere alla prova noi, la città di Mosca. Emerge il ritratto della città, un ritratto tutt’altro che univoco, dove c’è posto per l’amore di Margherita, il dramma di Ivan Bezdomnyj, la tragedia del Maestro, l’infamia dei vari Aloisij Mogaric e così via: sono presenti, cioè, tutti i registri della vita».
A tema, dunque, il bussare divino alla porta dell’uomo e la risposta di quest’ultimo, sempre irresoluta e fragile. In questo senso, il grande protagonista del romanzo, secondo padre Aleksandr, non è Cristo bensì Pilato. E questo perché «a Bulgakov interessa innanzitutto il tema dell’uomo “che si lava le mani”: il tema immenso e tragico di tutto il XX secolo. Mai prima d’ora questa innocua occupazione aveva assunto un carattere tanto funesto e dimensioni planetarie tanto ampie. Anche il Maestro è, a modo suo, una sorta di Pilato». Ma Bulgakov non sceglie questa prospettiva innanzitutto per puntare il dito e condannare il colpevole, bensì, «identificandosi con lui», prosegue padre Men’ «cerca - se non di giustificare in qualche modo il “lavarsi le mani”, almeno di mettere in luce tutta la tragicità di questo gesto e i tormenti che dilaniano quanti lo compiono. Lo scrittore li compatisce e augura loro la pace: pace dai rimorsi di coscienza… Sarebbe stato molto peggio se si fosse messo a denunciare il “pilatismo” e a minacciare con strali celesti coloro “che si lavano le mani”. Invece Bulgakov vuol guardare queste persone fino nel profondo, come Dio solo è capace di vedere l’uomo, ed essere misericordioso nei loro confronti, come lo è Dio».
L’orrore raggiunge il suo culmine nel vuoto di un sacrificio, di un Golgota senza Dio. È questo che fa sì che la vita dei personaggi del romanzo si impregni di un terrore che è destinato inevitabilmente a crescere. Un greve terrore si insinua lentamente ovunque: in ogni anima e in ogni pagina del romanzo. Spie, delazioni, tradimenti, viltà… Ne Il Maestro e Margherita si parla dei vari stadi del terrore che l’uomo può attraversare. Ad esempio quando il Maestro racconta al poeta Ivan Bezdomnyj ciò che aveva provato quando lo avevano attaccato sulla stampa: «… gli articoli non cessavano. Dei primi ridevo. Ma più ne apparivano, più il mio stato d’animo cambiava. Il secondo stadio fu quello dello stupore. In ogni riga di quegli articoli c’era qualcosa di falso, nonostante il loro tono minaccioso. Mi sembrava che gli autori degli articoli dicessero cose diverse da quelle che avrebbero voluto dire, e che ciò li facesse infuriare. Poi ci fu il terzo stadio, quello della paura; non delle recensioni, ma di altre cose che non riguardavano né gli articoli, né il romanzo. Così, per esempio, cominciai ad avere paura del buio. Insomma, era la prima fase della malattia psichica. Mi sembrava, specialmente quando stavo per addormentarmi, che una piovra sinuosa e fredda mi afferrasse coi suoi tentacoli il cuore. E dovetti dormire con la luce accesa».
Il ricomporsi dell’unità nel romanzo, e nel cuore dell’uomo - osserva ancora padre Aleksandr - passa invece attraverso il caparbio, inesorabile riapparire della presenza divina nel cuore di questo inferno, del Golgota che la Mosca degli anni ’30, «con le torri istoriate dei monasteri e il sole infranto nei vetri», stava a simboleggiare sovranamente, agli occhi di ogni intellettuale ma anche di ogni moscovita che fosse in grado di pensare, un Golgota più reale dei tram e dei negozi in valuta per stranieri... Un Golgota su cui Dio attende l’uomo e lo restituisce a se stesso.