Michail Bulgakov.

La cosa più testarda del mondo

Il "Maestro e Margherita" riletto secondo tre dimensioni: la larghezza, ovvero la società russa comunista. L'altezza, la storia di Ponzio Pilato. E la profondità, l'amore della protagonista. Tutte "misure" di un Fatto vivo che, gridando, le sfonda
Emmanuel Exitu

Queste pagine bruciano anche quando finiscono, il fuoco passa dalla carta al cuore e incenerisce i nostri giorni vuoti di memoria, pensieri, parole, opere, per lasciarci fiamme d’attesa, dolore, vita. Sono pagine a dimensioni iperboliche, quasi bibliche. La prima dimensione si può ironicamente definire larghezza: è l’Unione Sovietica, la società-scatoletta dei “nemici di tutti i misteri” che tentò invano di comprimere Santa Madre Russia, la società in cui ciò che non si può spiegare non esiste e dove, in contrappasso perfetto, l’agire più diffuso - ipocrisia, imbroglio, sfruttamento - nasce dall’impossibilità di essere se stessi (siccome l’io è tra le cose che non si possono spiegare, l’io non può esistere: e, seguendo Dostoevskij, se l’io non esiste allora tutto è permesso, tranne essere se stessi.)
Dentro questo “bunker senza finestre” in tutto simile al nostro mondo, un indomabile superstizioso come Bulgakov soffia il vento roventissimo delle sue fiabe popolari, regno del possibile e quindi regno dell’educazione alla categoria del possibile. In verità, si può parlare di genere fantastico solo a patto d’intenderlo non irreale, ma più reale (come Chagall, altro russo non così lontano: a nessuno può venire il dubbio che i suoi innamorati volanti non esistano, perché in effetti gli innamorati volano, e chi non lo sa lo scopre; del resto così lavora ogni vera opera d’arte, di qualunque genere sia: fa scoprire più realtà – il “realismo quasi crudele” accusato da Montale a proposito di queste pagine si riferisce a tale esperienza dolorosa: lasciare che l’arte forzi la nostra percezione solita, per allargarla). Così racconta gli anni di Stalin con uno spirito a metà tra le fiabe di magia piene di “alti ideali” e di “tensione verso qualcosa di elevato” e le fiabe di costume in cui scenari e personaggi sono reali, ma azioni e storie sono “insolite, inaudite, su tutto l’impossibile” (strategia sigillata dal clichè della ripetuta dichiarazione, a effetto umoristico, di veridicità della storia: cfr. V. Propp, La fiaba russa). Nel cozzo tra fantastico e reale sfavilla il suo stile comico, spesso moltiplicato da un’atmosfera che sembra tolta di peso dal comico involontario dei verbali di polizia dei mondi totalitari.
È in quest’inferno che arriva Satana, alla vigilia di un torrido Triduo pasquale, per scatenare parole e opere che metteranno sistematicamente in ridicolo l’uomo rifatto ex novo dal progresso comunista. Si presenta come professor Theodor (“dono di Dio”) Woland (uno dei nomi germanici del diavolo, il dio fabbro dell’antica mitologia nordica), esperto di magia nera, con biglietto da visita in caratteri non cirillici ma latini, che pronunciati alla russa suonano faland, stessa radice di falsità (anche in tedesco, Falle), e vale notare che la sua iniziale W è il rovesciamento dell’iniziale M dei protagonisti… ma qui tutto brulica di tali ramificazioni di senso, che prolificano di continuo, come nelle icone, dilatando il nostro sguardo e il nostro essere. Chiunque avrà a che fare con Woland perderà la testa: tema insistente sia in senso letterale d’esser decapitati, che in senso figurato d’impazzire. (È uno strano diavolo, però… porta caos e fuoco, ma lo fa smascherando il male e l’ipocrisia… non è un’operazione che di solito spetta alla Verità? È un enigma insolubile, come l’epigrafe del romanzo: da quale mondo viene veramente questo Straniero?)

Il comico s’infrange quando entra la dimensione dell’altezza, la storia di Pilato che per viltà abbandonò l’Innocente, un quasiGesù (così come Satana è un quasiSatana: il simbolismo è sempre ambivalente, sfalsato, sfuggente, mai sovrapponibile - per fortuna? no - all’ortodossia, è appoggiato sul più generico manicheismo che vede il dio della luce contro il dio della tenebra, ma è un appoggio funzionale al racconto, non fondante - essenziale è il metodo di cui si parlerà più avanti, il metodo!, inconfondibilmente ortodosso-cattolico, cioè umano e razionale). C’è una violenta incandescenza di stile verso il tragico, oppressivo come l’Impero Romano che vive solo d’intrigo e tradimento, soffocante come l’immensa nube scura dai contorni giallastri che affoga Gerusalemme mentre muore quell’Uomo, tormentoso come il vuoto che strangola Pilato quando capisce che «quel mattino s’era lasciato irreparabilmente sfuggire qualcosa». (A proposito: Pilato è devastato da mal di testa crudeli e immedicabili, e solo nei brevi istanti di dialogo con Gesù sarà guarito; penserà sempre a lui come al “medico”.)

La dimensione della profondità è Margherita, l’unica che tiene testa a Satana non perché buona, ma perché ama: anche lei vive di falsità e leggerezza, ma è trasfigurata dall’amore che la proietta fuori di sé, liberata dalla smania di possesso e potere, persino di vanità. Anche qui lo stile vira brutalmente, e affila ogni lama quand’entra in scena lei: bella, intelligente, ricca, trentenne sposa di un bel giovane di successo, onesto, innamorato. «Insomma… era una donna felice? No, nemmeno per un minuto.» La felicità comincia incontrando un uomo senz’altro nome che il Maestro, autore del libro su Pilato fatto a pezzi dalla critica letteraria (ma lui respinge con odio l’etichetta di letterato: lui, dice, è uno storico); la felicità finisce quando lui brucia il manoscritto - come fece Bulgakov, terrorizzato dalla censura - e scompare nel nulla, facendosi chiudere in manicomio. Quando l’amore colpisce in pieno, comico e tragico si sfaldano rivelando un nucleo d’umanità che assimila tutto e reclama un cambio di tono. Non serve il tragico, non serve il comico, ora serve il drammatico - che li include - perché lei ha uno scopo chiaro, si potrebbe quasi dire un compito: ritrovare il suo amore, liberarlo e salvarlo. La sua occasione viene dal diavolo: avvicinata da un suo messaggero, accetta d’essere la Regina al gran ballo di Satana in cui i più orribili criminali della storia sfileranno per baciarle mano e ginocchio, ovviamente con proporzionata ricompensa: riavere il Maestro. Il messaggero le dona una crema e scompare. La sera, mettendosi nuda, Margherita spalma il suo corpo e rifiorisce di colpo, sfolgorando di bellezza - sarà sempre nuda fino alla fine della notte, e quasi non sembra, per come è trattata da Bulgakov: il suo fascino è assoluto, non c’è posto per la semplice concupiscenza. È una scena di felicità selvaggia, trionfo carnale di forza e giovinezza, eppure ha un fondo inatteso, la perla nascosta di una lacrima di commozione: dopo un brivido di sorpresa e vanità nel vedersi trasfigurata, Margherita capisce che la sua bellezza sarà l’arma per liberare il Maestro, e allora niente la fermerà. La controprova è la reazione della domestica Natasa che usa il fondo del vasetto buttato dalla padrona. Con la bellezza Natasa imporrà i suoi capricci, e opprime; con la bellezza Margherita imporrà il suo amore, e libera: quando Satana chiede cosa vuole in cambio, travolta dalla pietà Margherita esige che Frida, una delle partecipanti a ballo, non sia più tormentata dal fazzoletto col quale soffocò il figlio appena nato (perde così la possibilità di salvare il Maestro, ma il diavolo…)
Margherita non è solo una donna, è duemila volte donna perché innamorata. Riuscirà, più letale di un Navy Seal, perché con una donna innamorata non ci si può disperare, e nemmeno scherzare: dove non ti porta il diavolo ti porta la donna, dice un proverbio russo - e nella vita la donna che seppe tener testa a ogni diavolo fu Elena, sua terza moglie, fedele nella povertà e nella malattia: a lei Bulgakov, consumato dalla sclerosi a placche e cieco, dettò fino all’ultimo (1940) l’ennesima riscrittura del romanzo cominciato dodici anni prima.

Ma è una vittoria? In nessun modo. Non a caso la tonalità tragica torna nell’ultimo capitolo, traboccando dalla dimensione dell’Uomo per inondare le profondità di Margherita: nella notte del Sabato Santo, «la notte che smaschera gli inganni», Satana e i suoi aiutanti manifestano la propria intimissima, sfiancante tristezza; i due amanti sono premiati con la morte e l’eterno rifugio di un limbo imperturbabile che non ha nulla di paradisiaco (una “casa eterna” che Margherita descrive con esaltazione forzata, ma quando vide per la prima volta percepì come «un non so che di morto e di così triste, che veniva voglia d’impiccarsi […] Che posto infernale per una persona viva!»); Pilato, da duemila anni chiuso in un limbo di rocce, è perdonato per la bellezza del libro del Maestro, libero di raggiungere l’Uomo «in ciò che ormai è finito» nel miraggio di una Gerusalemme che sparisce. (L’epilogo bellissimo, condotto sul registro comico, indica poi dove son finiti tutti i personaggi, ma è solo un coperchio posticcio del tutto incapace di chiudere il pentolone del romanzo in cui ribolle ogni vita - ma nessuna sorpresa: è noto che il diavolo, coi coperchi, non ci sa fare).
Il bunker è stato sfondato, ma fuori non c’è nessuno: non è un happy end, e “l’inestinguibile aspirazione nostalgica” dell’umano non smette di tendersi, molto oltre il romanzo. Ogni personaggio trova il proprio scioglimento narrativo, ma ogni tensione rimane - per fortuna? sì - inesaurita, per colpire chi legge a cuore aperto con il dolce peso di un’attesa senza fine, dal nucleo sempre più incandescente. Da qualche parte, in quella desolazione, c’è ancora qualcosa, qualcuno. E il cuore con lui.

Bulgakov è strapotente e credibile nelle sue invenzioni perché è esattamente come si definiva, uno “scrittore mistico”, nel senso proprio che vuole e cerca senza sosta il fondo della realtà: più che ancorato ad essa per scelta ideologica, sembra ininterrottamente risucchiato dal Mistero della sua attrattiva. Sembra continuamente rispondere a uno dei refrain de I fratelli Karamazov: «Veniamo al fatto. […] I fatti parlano! Gridano!» La prova è l’incipit: il direttore di una rivista è insoddisfatto del poema antireligioso che ha commissionato, perché è un errore gravissimo creare un Gesù a tinte fosche, tetro ma del tutto vivo: «l’importante non era la bontà o meno di Gesù, ma il fatto che Gesù in quanto persona non era mai esistito. […] Da quello che hai scritto, sembra che sia nato per davvero!». Bisogna invece mostrare che «i cristiani, senza inventare nulla di nuovo, crearono il loro Gesù, che in realtà non è mai esistito». È qui che Satana-Woland entra nella storia contraddicendolo con certezza assoluta per il semplice fatto che c’era, è costretto dal suo ruolo a dare testimonianza: «Tengano presente che Gesù è esistito […] Ho assistito personalmente a tutto.» E comincia a raccontare: «È tutto molto semplice. Nel primo mattino del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan, avvolto in un mantello bianco foderato di rosso…»

«Questo è il fatto. E il fatto è la cosa più testarda del mondo.»
Il fatto è l’innesco perfetto del cuore, e suo carburante divino, che non lascerà mai pace, ma solo fuoco. Dal cuore si può sempre fuggire - e perdersi - ma nessuno può impedire che bruci, perché il cuore è fatto per bruciare. Il cuore brucia e non si spegne: così avvenne la Domenica di Pasqua del 1929, così avvenne il 25 gennaio scorso, così avverrà tutti i giorni fino alla fine del mondo.
Così avviene ora.

non solum in memoriam, sed in intentionem: Lucio Dalla.