Per le vie del villaggio di Balang.

LETTERA Un film e due tele per i miei ragazzi di cristallo

Da dieci anni nel Paese dei khmer, padre Alberto racconta cosa sta scoprendo in missione. E cosa desidera: «Insegnare ai ragazzi a chiamare le cose con il loro nome»
padre Alberto Caccaro

Prey Veng, 9 Gennaio. Battesimo del Signore

The fragility of crystal is not
a weakness but a fineness”

… to call each thing by its right name

(dal film Into the wild)

C’e un gruppetto di studenti che arriva a scuola sempre in ritardo. E non sono nemmeno i piu lontani. Hanno sempre una scusa pronta. Allora quando ritardano, io gioco di anticipo. Provo a spingerli avanti, a far loro credere che possono fare meglio... in tempo. La nostra scuola non ha particolari ambizioni. Fin dall’inizio ci affascinava l’idea che avesse almeno un orologio. Con degli insegnanti puntuali e degli studenti per i quali le sette fossero le sette ed un esame fosse un esame. Cose semplici, ovvie, ma vere, da custodire come tali nel tempo. Tutto qui: fare bene il bene, fare veramente quello che in questo momento della nostra e della loro vita è opportuno... Un orario vero, un prof vero, un esame vero, un cinque vero, un nove vero, un diploma finale vero, una vita vera, con le proprie capacità e i propri sogni, veri! Non una fiction...
Qualche settimana fa abbiamo visto il film Into the wild del regista americano Sean Penn. Racconta la storia vera di Christopher McCandless. A 22 anni, dopo il college, lascia tutto e intraprende un viaggio che lo porta in Alaska, Into the wild, appunto. È spinto dal desiderio di cercare la natura delle cose, il loro senso, il loro vero sapore. Quello che in famiglia, e nella societa del suo tempo, non aveva ancora trovato lo va a cercare nella natura più selvaggia, senza denaro, senza accessori, senza maschere. Un bisogno di verità che lo rende vulnerabile, lo espone. È fragile come il cristallo, dice la sorella che spesso interviene come voce narrante e spiega il perchè di questa ricerca. «The fragility of crystal is not a weakness but a fineness» (La fragilità del cristallo non costituisce la sua debolezza, ma la sua finezza). Il cristallo è fragile non perchè debole, ma perché fine, trasparente, puro. Christopher ha un estremo bisogno di verità, fino alla fine. Quando, ad un certo punto della ricerca, vorrebbe tornare indietro, dopo aver capito che bisogna «chiamare ogni cosa con il suo proprio nome», non può più farlo. E muore di stenti.
«To call each thing by its right name» è una delle ultime battute del film. Christopher prende questa citazione da Il dottor Zivago di Pasternak. Bisogna chiamare ogni cosa con il suo proprio nome e rispettarne la natura. Un orario è un orario, un esame è un esame, un matrimonio è un matrimorio, un figlio è un figlio; vorrei dire ai miei studenti: «To call each thing by its right name». La voce narrante della sorella ci dice che il matrimonio da cui nasce Christopher non è un vero matrimonio. La madre è solo la seconda moglie di suo padre. Ma non sono realmente sposati. Dopo la nascita di Christopher, il padre riesce ad avere ancora una relazione con la prima moglie da cui nasce un altro figlio, mai riconosciuto. «Their fraudulent marriage and our father’s denial of this other son was, for Chris, a murder of everyday’s truth» (Il loro matrimonio non autentico e il fatto che nostro padre avesse negato quel figlio, fu per Chris l’assassinio della verità di ogni giorno). Per questo ha bisogno della verità, perchè «They made his entire childhood seem like fiction» (Hanno fatto sembrare la sua intera infanzia come una finzione). Christopher non rivela mai niente di tutto ciò, ma cammina, cammina, e muore. Era nato come me, nel 1968.
Asher Lev invece è solo il protagonista di un romanzo. Nasce dal genio letterario di Chaim Potok, dall’altra parte del mondo. Nel romanzo Il mio nome è Asher Lev, Asher è un ebreo osservante che dipinge con una creatività che rompe tutti i confini. Uno dei suoi soggetti preferiti è la Crocifissione: «Io, un ebreo osservante che lavora su una crocifissione perché nella sua tradizione religiosa non esiste alcun modello estetico al quale far risalire un quadro di angoscia e di tormento estremi» (Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, Milano 2002, p. 280). Lotta per potersi esprimere perché suo padre e la tradizione religiosa che incarna, gli vietano di darsi alla pittura e a un simile soggetto. Dipinge una prima Crocifissione, ma non è soddisfatto: «Il quadro non diceva completamente ciò che avrei voluto dire; non rifletteva completamente l’angoscia e il tormento che avevo voluto metterci. Dentro di me, una voce ammonitrice parlò tacitamente di frode. Avevo portato nel mondo qualcosa di incompleto» .
«Lasciarlo incompleto avrebbe fatto di me una puttana (…) Avrebbe reso sempre più difficile disegnare con quell’in più di dolore, nello sforzo creativo, che sempre costituisce la differenza fra integrità e inganno. Non volevo essere una puttana nei confronti della mia propria esistenza» . Ci riprova con una seconda tela, medesimo soggetto, ma mentre nella prima, la figura della madre appare sullo sfondo rispetto alla croce, nella seconda la madre è sulla croce: «Per tutto il dolore che hai sofferto, mamma. (…) Per il Padrone dell’Universo il cui mondo di sofferenza io non capisco».
Di questa seconda tela, chiamata Crocifissione di Brooklyn II, Asher è soddisfatto.
Quello che vorrei afferrare, e custodire, è l’onestà intellettuale di questo giovane pittore. Il suo genio creativo non tace, non mente, resiste a qualsiasi compromesso e violenza, per esprimersi ad ogni costo, spesso rompendo le righe. Teme di portare «nel mondo qualcosa di incompleto». Vorrei che la scuola, in Cambogia come altrove, si occupi di questo sacro timore e si impegni ad assicurare a ciascuno studente profondità d’animo, autonomia di pensiero e il coraggio di non mentire a se stessi. «Tutto è nelle mani del cielo, tranne il timore del cielo», dice il Rebbe ad Asher, per questo dovremmo occuparcene noi.
Penso ai miei studenti come a quel cristallo di cui parla la sorella di Christopher. Fragili. E penso che ciascuno di loro abbia bisogno della verità. Come Christopher e come Asher. Non devono diventare stumento della menzogna e portare «nel mondo qualcosa di incompleto», ma capaci di dire, di fare, di sognare la verità. E chiamare ciascuna cosa con il suo proprio nome. La vita non è una fiction.
Into the wild è un film da vedere e Il mio nome è Asher Lev è un libro da leggere. Eviterei l’Alaska e l’epilogo tragico della vita di Christopher. Rimane però l’urgenza di offrire ai giovani la possibilità di rintracciare il senso non altrove, ma negli orizzonti della vita quotidiana. Nelle relazioni di ogni giorno. E poi, leggere, leggere tanto. Leggere per leggersi dentro. Ben più vasto è il nostro mondo interiore!
Che papà, mamme, maestri, dottori, psicologi, psicoanalisti, tutti!, possano considerare «il rapporto con Dio come l’ipotesi di lavoro più adeguata all’incremento e alla realizzazione dell’unità della personalità» (Luigi Giussani, Alla ricerca del volto umano, Milano 1995, p. 164).