Un villaggio vicino al Tonle Sap, in Cambogia.

Faccia a faccia con Dio nella risaia

Missionario da dieci anni nel paese dei Khmer, padre Alberto racconta della visita alle famiglie di Prey Veng. E di un viaggio di cento chilometri verso una miseria «che fa compagnia»
Alberto Caccaro

E mi resi conto, mentre entravo, che avevo
attraversato campi che non erano parte di tenute terrene
.
(Patrick Kavanagh, Mattino di trebbiatura)

Capita spesso a noi missionari di uscire in visita alla miseria altrui. Ne parliamo, ne scriviamo, ci diamo da fare, ma raramente ci restiamo. Torniamo piuttosto a casa, con qualche deplorevole commento a cui benevolmente segue qualche intraprendente sogno di riscatto, di rivincita, ma raramente restiamo a patire quel destino. E, se lo facciamo, nel migliore dei casi, lo facciamo part-time.
Ieri ho percorso cento chilometri in moto. Strade sterrate, risaie a perdita d’occhio e di speranza, villaggi animati dalla vitalità di centinaia di bambini. E poi polvere, tanta polvere, che fa tutto e tutti di uno stesso colore, il colore della terra. Gli studenti della scuola sono in vacanza e ne abbiamo approfittato per visitare le famiglie di otto di loro. Siamo partiti la mattina e poi, di casa in casa, in visita alla loro miseria. Sono tornato profondamente commosso, gaudente e grato. Perché se è vero che in ciascuna delle case non è mancato il segno della miseria, non è mancato nemmeno il segno di una grande dignità che non aspetta il mio denaro, né le mie soluzioni. Anzi, quella dignità mi ha consolato, mi ha fatto compagnia. Così come ho sentito compagna anche quella miseria. Mi sono sentito parte di essa, senza il diritto di prenderne le distanze. Cento chilometri di risaie e villaggi, per rendermi conto «che avevo attraversato campi che non erano parte di tenute terrene». Qui, solo la parola del poeta mi aiuta a vedere quello che altrimenti sfuggirebbe ai miei occhi, preda dell’oblio. Invece, sento lo Spirito portare luce e «ne stillano certezze d’oltre i sensi; / attimi soli e indicibili, luminosa alba della trascendenza» (Ugo Foscolo).
Questo è il periodo più caldo e più secco dell’anno. Gli stagni, gli acquitrini, i canali, i rigagnoli d’acqua, tutto lentamente si asciuga ed i bambini ne approffittano. Il calare del livello delle acque espone i pesci, fa affiorare crostacei d’ogni tipo, che diventano facile preda delle mani leste, affilate e affamate dei bambini. Ne ho visti a decine, semi-nudi immersi nelle paludi, tutt’uno con il fango, con le mani a setaccio per qualche pesciolino da mettere sulla tavola della sera. Cento chilometri di risaie per vedere che «Dio è quaggiù tra paludi e acquitrini (...). Un’umile scena in un luogo appartato / Dove mai si è posato uno sguardo importante».
Ormai prossimo a casa, la mia coscienza inquieta, la mia intraprendenza e creatività, gli obiettivi già raggiunti in passato, premevano perchè escogitassi subito qualche soluzione ai problemi incontrati per via. Avevo visitato la famiglia di Sokhuan, uno dei nostri migliori studenti che frequenta l’undicesima, per vedere se è possibile aiutarlo anche all’università, e il padre in quel momento ubriaco, come ieri e l’altro ieri, ex militare, non solo non seguiva il mio discorso, ma si diceva preoccupato di andare a sparare al confine con la Tailandia per proteggere la Cambogia dalle pretese dei vicini invadenti. Gli ho detto che è più saggio per lui stare a casa e proteggere la sua famiglia. Sarebbe già un bel miracolo. Per la Cambogia ci penserà qualcun altro...
Di casa in casa, ho capito che bisogna stare con questa gente più a lungo e più a lungo patire la loro vita senza delegare a progetti sulla carta la possibilità e l’urgenza di seguirne i passi. Mi prende sempre una certa fretta, più per la paura, l’imbarazzo che non per reali motivi. Loro invece hanno bisogno di tempo, io ho bisogno di tempo e non riusciamo mai a spiegarci l’un l’altro nello spazio di una visita. Occorre di più ed ho paura che sia quello che Gesù chiede all’uomo ricco nel Vangelo di Marco (10,21): «Una sola cosa ti manca: va', (...) e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Non ho più nemmeno il coraggio di citare il Vangelo per intero. Lo tengo sospeso tra le mie parentesi, le mie mura, le mie cose, le mie idee, o ideologie, i miei gadgets, forse per una certa paura ed incertezza nell’interpretarlo, forse perché le priorità del momento, anche ecclesiali, sono altre. O forse perché non mi parla più come agli inizi, in riva al lago di Galilea. Di fatto, il viaggio in moto di ieri, la visita alle famiglie, ha suscitato in me una certa nostalgia per il centuplo promesso da Gesù su questa terra e che ieri mi sembrava a portata di mano: «Avevo attraversato campi che non erano parte di tenute terrene».
Vorrei essere come quel medico descritto da Anton Cechov «che porta in sé senza troppe parole, fischiettando talvolta sopra pensiero, il confluire di innumerevoli patimenti. Egli entra ed esce da quelle cose e sa che poco può fare per quella gente, e ben poco crede alla sua stessa arte; ma siede al capezzale di ognuno e vi rimane. Egli porta con sé il solo farmaco vero: lo sguardo inconfondibile di chi è pronto a vegliare con noi».
Entravo in alcune di quelle case per la prima volta. Mi accompagnava Chuan, uno dei miei collaboratori, studente della prima ora quando, ancora agli inizi, aprivamo l’ostello di Prey Veng. Ottobre 2005. Adesso è insegnante di computer, ma mi ha detto che vuole scrivere alcune pagine su certi luoghi comuni e mentalità diffuse nei villaggi che spesso sono l’ostacolo principale alla crescita umana delle nuove generazioni. Ha già letto Il rischio educativo in Khmer al punto che la sua copia è tutta evidenziata e annotata. Lui stesso ha patito il pessimismo diffuso dalle parole degli anziani, l’animismo rassegnato, i confini ristretti della dottrina del Karma, dove non c’è ancora spazio per quell’esperienza che san Paolo chiama «la potenza della sua resurrezione». Immediatamente dopo lo visita, l’ho visto annotare intuizioni, immagini, su un pezzo di carta perché, dice: «quando si parla con gli anziani, bisogna usare quelle metafore che possono fare breccia, altrimenti ti mettono a tacere». Nella prima lettura di domenica scorsa (Ez 37,12-14) all’unisono con la pagina tratta dal Vangelo di Giovanni, Dio prometteva di aprire i nostri sepolcri, prometteva il dono dello Spirito e in Gesù gridava a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Ieri la visita, oggi la ricchezza delle Scritture, «la potenza della sua resurrezione». Tutto mi è ora più chiaro.
Grazie a Dio, la scuola ci espone continuamente a questi contatti diretti, a volte estenuanti, ed è meraviglioso quanto impegnativo provare a seguire i ragazzi e le loro famiglie, perché queste sono lo sfondo sempre incerto, instabile, friabile, come friabili sono i legami in regime di sopravvivenza, della loro vita. «L’incertezza nei rapporti», dice Giussani nel Senso religioso, «È uno dei malanni della nostra generazione: è difficile la certezza dei rapporti incominciando dalla famiglia. Si vive con il mal di mare, con una tale insicurezza nella trama delle relazioni, che non si costruisce più l’umano».
Stiamo aiutando un buon numero di giovani a studiare, a studiare bene, ma il vero problema è la totale assenza di una politica occupazionale. Ci sono troppi interessi stranieri e quindi il beneficio di tutti gli investimenti è orientato non all’interno, se non per una ristretta oligarchia, ma all’esterno. Quindi all’incertezza sul presente, la famiglia, si aggiunge l’incertezza sul futuro, il lavoro. Quello che ora posso fare è andare più spesso in visita a queste famiglie, non appena otto, molte di più, senza fretta. Chiedo al Signore che mi sia concessa un’altra opportunità, un altro tempo in terra di Cambogia. E chiedo, forse più importante del tempo, quello che Leopardi nello Zibaldone chiama «il più vasto colpo d’occhio». Come ieri, per vedere Dio che «infondeva il suo amore nei pressi di una palude lontana» (P. Kavanagh). Buona Pasqua.