Padre Alberto tra giovani cambogiani.

Anche a Roma, quanto mondo per i miei occhi

Padre Alberto, missionario del Pime, dopo dieci anni è rientrato dal Paese dei Khmer. Tempo di bilanci? Tutt'altro. Come dimostrano la storia di Borey, l'amicizia con Dimitri e le pietre del Colosseo...
Alberto Caccaro

«Sia grazia essere qui,
grazia anche l'implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi,
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui,
nel giusto della vita,
nell'opera del mondo.
Sia così»
Mario Luzi, Augurio

Alcuni giorni prima di lasciare la Cambogia, ho fatto visita a Borey, presso le Missionarie della Carità di Madre Teresa, poco fuori Phnom Penh. Borey si trova lì da ormai sei anni. Orfano di madre, morta di Aids, è nato malato dello stesso virus. Lo conosciamo perché, nell’anno 2005, è stato nostro ospite a Prey Veng per diversi mesi. Cartella, divisa, scarpe e via all’asilo... Poi, l’aggravarsi delle sue condizioni di salute e l’esigenza di una terapia opportuna, ci hanno convinti a trasferirlo presso questa casa dove la presenza invisibile della Madre e l’amore delle suore si spingono al di là della sola terapia farmacologica. Con i loro sguardi e con le loro cure sanno impreziosire la vita di questo e di tanti altri bambini. Da allora Borey ha lottato e sempre vinto! Spesso vicino alla morte, non si è mai fatto prendere. Ricoverato più volte, sottoposto a dosi massicce di antibiotici di ogni tipo per arginare le innumerevoli infezioni che si prendevano gioco di lui, Barey non ha mai smesso, “dolore sopra dolore”, di essere qui. Quando andavo a trovarlo in ospedale durante i lunghi mesi di ricovero, solo il fatto di vederlo un istante, ancora vivo, mi bastava. «L’esserci, il primo e più nudo dei misteri», direbbe Mario Luzi. E niente di più.
In questi ultimi anni incontravo Borey raramente. Sapevo che lui custodiva alcune mie foto. Una in particolare, era appesa accanto al suo lettino. Suor Bertina spesso mi diceva che Borey mi considerava come un padre, e la foto lo proteggeva durante la notte. Un giorno, mi raccontò Bertina, la foto sparì, forse cadde e fu presa da altri bambini. Borey non si dette pace fino a che non fu ritrovata e di nuovo appesa, accanto al lettino. Le suore allora cominciarono a parlarmi di «feeling of belongingness» (sentimento di appartenenza), che Boray sentiva nei miei confronti. Sapendo tutte queste cose, sono andato a salutarlo. Ho incontrato suor Bertina, ma inaspettatamente mi ha subito detto che non avrei dovuto dire a Borey della mia partenza. «Ora sta andando a scuola, sta bene di salute, le medicine fanno effetto. Non c’è bisogno di altro. Lascia che ti pensi vicino, raggiungibile, anche se non sei con lui». Ho discusso a lungo con questa suora, la cui dolcezza ha sempre affascinato tutti noi missionari del Pime, e poi ho fatto come mi ha detto. Ho incontrato Borey, siamo rimasti a parlare per circa un’ora e ci siamo salutati, lui per tornare nell’edificio che lo ospita, io per tornare a Prey Veng...
In realtà non sono più a Prey Veng, ma a Roma. I superiori mi hanno chiesto di rientrare in Italia. «Sia grazia essere qui». Ieri sono uscito di casa nell’ora più calda del giorno. Il sole mandava una luce tanto intensa e potente che, ovunque si posava, rimbalzava, raddoppiando la sua intensità. Le pietre, anche le più scure, il travertino o i blocchi di tufo impiegati per costruire il Colosseo, a Roma non trattengono, ma riflettono la luce del sole. Ciò che è opaco, qui risplende, si riempie di vita, ha una storia. Sì, tutte le strade portano a Roma, recita un famoso adagio. Ma è vero anche il contrario. Tutte le strade partono da Roma. La città eterna può darti ragioni per ri-partire: qui, le pietre riflettono il divino. Per questo è un privilegio per me essere qui. Come è stato un privilegio immeritato il tempo trascorso in Cambogia, a Prey Veng. «Sia grazia essere qui, nel giusto della vita, nell'opera del mondo. Sia così».
Prima le risaie, ora le pietre, cullano la mia anima. Roma mi culla. I secoli, la storia, sono la mia culla. Cammino per ore, ma è per me riposo. Muovendomi per le vie, è come se appena mi girassi, dentro questa culla che è la città eterna. Non mi stanca, mi ricrea e mi dà pace: un lungo cammino, di sogni, di secoli, di storia. Tutto dipende, direbbe Flannery O’Connor, da quanto mondo i miei occhi riescono a contenere: «La fede, nel mio caso almeno, è il motore che aziona la percezione» (Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Roma 2010, p. 73). E sento vero quello che dice Rilke ne I quaderni di Malte Laurids Brigge: «Sto imparando a vedere. Non so perché, ma ogni cosa penetra in me più profondamente e non rimane là dove, finora, ha sempre avuto fine. Ho un’interiorità che non conoscevo. Ora va tutto là dentro».
Ma non è tempo di bilanci. Preferisco pensare ad un mio caro confratello che ha il doppio dei miei anni ed è ancora in Estremo Oriente. Anima alcune case-famiglia per portatori di handicap, fisici e mentali. Il pensiero di lui, la sua carità discreta, mai risolutiva, mi spinge. Anima non solo quelle case, ma anche il mio «desiderio di penetrare la superficie della realtà e trovare in ogni cosa lo spirito che la rende tale e tiene insieme il mondo» (F. O'Connor, Il volto incompiuto. Saggi sul mistero di scrivere, Milano 2011, p. 71).
Qualche settimana fa, la storia di un’amicizia intensa, mi ha invece portato prima a Parigi, poi a Chartres. Dimitri ha ricevuto il Battesimo. Alla fine di settembre, con la moglie, partirà per la Cambogia. Ci siamo dati il cambio! Leggerete di lui nel prossimo numero di Mondo e Missione, quindi non aggiungo altro, se non alcune sue parole dopo la celebrazione del Battesimo: «Last night, I realized how boundless the grace of God is. We are so insignificant. He is so great. I am in love or maybe "ill". I realize the madness of God. My tears express the "nostalgia for Jesus". I live through the painful joy of his resurrection. I love Christ, I love his love, I love his empathy, I love his sacrifice. Last night, an explosion happened in my heart. I received baptism at Missions Étrangères de Paris».
Mi commuove e rigenera questo attaccamento a Cristo, anche se a volte si infrange con ciò che leggo, vedo e sento. Mi affascina questa continua tensione tra fede ed incredulità, umiltà e onnipotenza, dentro di me, nelle persone e nel mondo che mi circonda, ma c’è il rischio di una schizofrenia del cuore prima che della mente. Forse abbiamo troppi amanti, quasi tutti part-time, senza un centro di gravità se non quello terrestre che ci schiaccia e ci atterra. Dell’equazione "Dio è amore", è rimasto solo l’amore. Che è ormai nelle mani dell’uomo. Per questo le sorprendenti parole di Dimitri «I love his love, I love his empathy, I love his sacrifice», mi hanno scosso. Non l’amore, ma il Suo amore. Amo l’amore di Cristo, e non altri, amo l’amore che Cristo mi ha rivelato. Amo il modo, la forma, l’altezza, l’ampiezza, la profondità, dell’amore di Cristo, direbbe San Paolo. Non altri amori. Come il blu di Chartres, e non altri blu.
Desta allora interesse un saggio sull’amore di Simon May, dal titolo: Love: A History. Descrive una sorta di Romanticismo di ritorno, tipico della modernità che ha portato ad una “divinization of human love”. L’amore umano può sostituire Dio come «our ultimate source of meaning and happiness, and of power over suffering and disappointment». L’amore, nelle sole mani dell’uomo che, nel frattempo, ha rotto l’equazione e l’alleanza. Ma di fronte alla gravità di un’ipotesi così ci metteva in guardia già Émile Zola nel suo bellissimo romanzo Il denaro. Sì, il denaro pare la causa di tutti i nostri conflitti, ed è vero. Ma, si chiede Zola: «Perché dare soltanto al denaro la colpa delle porcherie e dei delitti di cui è causa? È forse meno sporco l’amore, l’amore che crea la vita?». Il romanzo finisce con questa domanda.
Prey Veng, Parigi, Roma. Sia grazia essere qui. Eppure, «manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, è volgare, / mai fu così volgare come in questa ansia, / questo "non avere Cristo" - una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine...» (Pier Paolo Pasolini).