Il cardinale Kazimierz Swiatek.

Il detenuto che portava Cristo in lager

Il 21 luglio è morto il cardinale Kazimierz Swiatek, arcivescovo emerito di Minsk. Un testimone della fede perfino per gli ufficiali sovietici. Come quando celebrò la Pasqua in lavanderia...

Nato a Valga (Estonia) il 21 ottobre 1914, Kazimierz Swiatek è stato ordinato sacerdote l’8 aprile 1939. Nel 1941 è stato arrestato dal Kgb, il servizio segreto sovietico. Fuggito approfittando dell’invasione tedesca, è stato arrestato di nuovo nel 1944 e rinchiuso nella prigione di Minsk. Condannato a dieci anni di lavori forzati in Siberia, ha lavorato nelle miniere e nella «taiga». Liberato nel 1954, ha ripreso subito il lavoro pastorale. Arcivescovo di Minsk-Mohilev dal 1991, ha riorganizzato tutte le strutture ecclesiastiche dopo il crollo dell’Urss. Nel 1994 Giovanni Paolo II lo ha creato cardinale, consegnandogli nel 2004 il Premio Fidei Testis, per la testimonianza coraggiosa resa a Cristo negli anni della persecuzione della Chiesa nell’Europa dell’Est.
Ecco alcuni brani dal suo diario, tratti da
La Nuova Europa, bimestrale della Fondazione Russia Cristiana:


Dopo essere stato per due volte nelle prigioni sovietiche e aver trascorso due mesi nella cella dei condannati a morte, finii nei lager di lavoro forzato a regime speciale, dapprima nella taiga siberiana e poi nella tundra dell’estremo Nord. Qui vissi in condizioni di estremo isolamento, senza incontrare nemmeno un sacerdote cattolico e senza potermi confessare. Solo negli ultimi anni di reclusione riuscii a procurarmi delle ostie e dell’uva passa, che mi servirono per celebrare clandestinamente la messa. Come calice usavo una tazzina di ceramica e portavo ai cattolici il pane e il vino consacrati in una scatola di fiammiferi vuota. Una volta, a Pasqua, alla presenza di alcuni detenuti cattolici, celebrai la messa nella lavanderia, in mezzo a nuvole di vapore. Come suonò espressivo e commovente l’inno pasquale che cantai in quell’occasione: Oggi è per noi un giorno di gioia. Fu la più indimenticabile Pasqua della mia vita di sacerdote.
A Vorkuta, invece, organizzai la veglia di Natale. Con i pancacci su cui dormivamo avevamo costruito un tavolo, su cui avevamo disposto diverse pietanze. Io avevo messo due porzioni giornaliere di pane, che avevo risparmiato dalle razioni dei giorni precedenti. Altri - eravamo più di dieci - avevano portato dei cibi più costosi, che avevano trovato nei pacchi ricevuti dalle famiglie...
All’improvviso si spalancò la porta ed entrò il sorvegliante del lager con la pistola in mano e, dietro di lui, un soldato armato di carabina e baionetta. «Cosa state facendo?», chiese il sorvegliante. In piedi di fronte all’ufficiale del Kgb, cominciai a spiegare il rito della veglia di Natale. Tendendo la mano in cui tenevo il pane, gli proposi di condividerlo e di festeggiare il Natale con noi. Ne nacque una situazione strana, carica di tensione. C’erano infatti due mani tese: la mia con il pane e quella dell’ufficiale con la pistola: chi l’avrebbe abbassata per primo? Tuttavia, la prima mano ad abbassarsi fu quella che impugnava la pistola. Il sorvegliante ripose l’arma, si scusò di non poter accettare il pane perché era in servizio, ma ci permise di continuare la nostra veglia e assieme al soldato abbandonò la cella.
Un giorno mi portarono sotto scorta alla segreteria del Kgb, fuori dal lager. Dietro a una scrivania, il maggiore cominciò a controllare minuziosamente un fascicolo molto voluminoso, che conteneva i documenti sul mio soggiorno nelle prigioni e nei lager. Infine mi chiese: «Come ha fatto a sopravvivere, dopo aver sopportato tutto questo?». La mia risposta fu chiara e decisa: «Cittadino maggiore, a salvarmi la vita è stata la mia fede, forte e incrollabile, in Dio. È stato lui a salvarmi la vita». Il maggiore non negò l’esistenza di Dio, ma cominciò a domandarsi: «Esisterà davvero?» e si fece ancor più pensieroso. La mia vita in quel momento era nelle sue mani. Finalmente, dopo aver riflettuto a lungo, il maggiore mi guardò con benevolenza, prese in mano la penna, tracciò una firma con una calligrafia larga e disse: «Lei è libero».
In quegli anni, nei villaggi di campagna i fedeli si riunivano nelle case a pregare, a porte chiuse. Il più delle volte recitavano il rosario, usando delle corone fatte da loro stessi con la mollica di pane. Che preziose testimonianze di fedeltà a Dio e alla Chiesa! Sono state proprio queste famose “nonne” a conservare la fede in Dio nel periodo delle persecuzioni, quando non c’erano chiese né sacerdoti. Sebbene non abbiano versato il proprio sangue per la fede e per la Chiesa, la loro vita ha portato comunque i segni del martirio. Sono delle autentiche eroine, ma nessuno erigerà mai un monumento in loro memoria, e i loro nomi saranno dimenticati.
Ricordiamo con gratitudine anche chi, avendo ereditato la fede dai propri genitori e nonni, la incarna nella vita e nelle opere, contribuendo così alla rinascita della Chiesa. Non si possono dimenticare le grandi opere di Dio. Bisogna ricordarle e attingere forza da esse.
(da La Nuova Europa, 1/2004)