Elvis Presley, Andy Warhol (1963).

ANDY WARHOL Nell'icona "industriale", uno splendore intravisto

La seconda puntata della serie sull'arte contemporanea. Dopo Francis Bacon sulla rivista di gennaio, il viaggio continua con il pittore dei simboli della "american way of life". Marilyn, Elvis e la zuppa Campbell: semplici prototipi seriali o c'è di più?
Giuseppe Frangi

È possibile interpretare l’artista più programmaticamente superficiale del ’900 in una prospettiva di profondità? Il mondo di Andy Warhol è sempre stato guardato a senso unico, tutto orizzontale: anche perché lui stesso non ha mai suggerito altri sguardi diversi su di sé. Ma poiché stiamo parlando del personaggio che sicuramente ha avuto più influenza non solo sugli altri artisti ma anche sull’immaginario di tutti nella seconda metà del ’900, è bene sospettare di ogni semplicismo. A metterci sul “chi va là” è uno che aveva sempre sguardi non scontati sulle cose, Pier Paolo Pasolini. Descrivendo la celebre Golden Marilyn del 1962 Pasolini fece un paragone assolutamente inatteso. Disse che Warhol produceva immagini come i bizantini: frontali e seriali. Non solo: aggiunse anche una notazione stupenda. Che l’abside di Warhol era il mondo. Proviamo a seguire la traccia suggerita da Pasolini. Warhol in effetti ha sempre una visione frontale della realtà. Nel senso che non ha mai secondi piani, ma solo primi; non ha mai retropensieri. La nettezza di sguardo il fattore che lo contraddistingue, una pulizia formale che richiama proprio la linearità di quelle figure ieratiche della cultura bizantina. È un indizio più che sufficiente per non liquidare l’orizzontalità delle sue opere come appiattimento, come svendita dell’arte alle logiche consumistiche. Marilyn, come Liz Taylor o Jackie Kennedy o Elvis Presely vengono sorpresi e “fissati” di volta in volta nella loro essenza, che è determinata da quel fattore ultimamente insondabile che trasforma una persona in un mito. Warhol non vuole spiegare, non vuole interpretare, vuole solo restituire la quintessenza che ha fatto scattare sogni in milioni e milioni di persone e preservarne la bellezza dagli effetti del tempo.

La seconda caratteristica segnalata da Pasolini è la serialità. Warhol ha sempre rivendicato di concepirsi come un artista-macchina. Di voler mutuare metodi di produzione “industriali”, smitizzando l’immagine dell’artista superuomo capace di opere uniche. Warhol sceglie programmaticamente il molteplice, l’immagine diffusa partendo da un prototipo, questo sì, generato da un’intuizione. L’artista star, sorprendentemente, si comporta come l’artista anonimo della grande stagione dei mosaici: raffredda ogni soggettivismo, e ogni segno che caratterizza uno stile personale. Il suo compito è quello di far emergere uno splendore intravisto e moltiplicarne le icone.
La ripetibilità dell’opera ha un altro precedente nella storia della produzione artistica: si tratta delle icone, il cui processo produttivo prevedeva appunto la replica di immagini predefinite, con un minimo spazio per varianti lasciate all’artista. Non è un caso che le immagini delle icone abbiano attraversato i secoli, risentendo pochissimo del mutamento degli stili.

Spesso si dice che Warhol sia stato un grande creatore di icone. Evidentemente il senso di icona nella cultura consumistica è profondamente cambiato. Ma se guardiamo la Golden Marilyn o il suo corrispettivo maschile, l’opera dedicata ad Elvis Presley nei panni di cowboy, ci accorgiamo che Warhol mette nelle immagini una forza di evocazione che va ben aldilà della semplice mitologia divistica. Non si può seriamente spiegare il successo di queste immagini, senza riconoscerne la capacità di rendere icasticamente un profondo desiderio collettivo: quello di una bellezza che non tramonti, che non venga travolta dal tempo. È a quel desiderio di un “per sempre” che Warhol tenta di dare una risposta, mettendo un’immagine di oggi dentro una gabbia iconografica senza tempo. Lo fa senza caricarla di nessun significato, ma caricandola semplicemente di riflessi di un credibile splendore: credibile proprio perché attinto da quelle altre icone, tanto viste in gioventù.

Ovviamente si potrebbe rafforzare questa lettura raccontando quel lato della biografia di Warhol, che lui aveva coperto dalla più assoluta riservatezza: cioè il legame mantenuto con la Chiesa. Si potrebbe approfondire il rapporto decisivo con la madre Julia, che lo aveva seguito a New York, e aveva abitato con lui, pur mantenendosi attaccatissima alla sua storia di emigrata e di credente (non aveva mai imparato bene l’inglese…). Si potrebbe ricordare come l’ultimo grande ciclo realizzato dall’artista americano sia stato dedicato all’Ultima Cena di Leonardo… Ma la questione non è di spostare Warhol dalla posizione culturale che ha occupato, in quanto interprete di un immaginario americano che ha conquistato il mondo. Non si tratta di collocarlo dentro un’altra appartenenza culturale: come intuì Pasolini (ed è la terza intuizione di cui gli siamo debitori) l’abside del Warhol bizantino è il mondo. La sfida è quella di guardare alle sue opere senza la scontatezza che ci è stata indotta. Provare ad andare in profondità laddove tutto induce a restare alla superficie. Capire qual sia la chiave che rende sempre giovani, vitali e non datate le immagini che la creatività di Warhol ha saputo reinventare. Capire su cosa poggiasse questa sua grande capacità di non demonizzare mai il mondo e la realtà (mentre quasi tutta l’arte a lui contemporanea era in conflitto con il mondo e la realtà). Di non sentire nulla come nemico, tanto da celebrare e nobilitare anche i simboli più disprezzati anche i risvolti più banali, come la confezioni di zuppa Campbell che ogni giorno arrivavano sulle tavole di milioni di americani. Si tratta di guardare le opere di un artista che ha segnato il nostro tempo e che sa ancora far breccia nel nostro sguardo, ponendosi delle domande senza fermarsi agli schemi. Con ogni probabilità avremo molte sorprese.