Gerhard Richter, Confrontation 2, 1988.

GERHARD RICHTER. Una pittura senza ideologia

È uno degli artisti più importanti del nostro tempo. Figurativo e astratto: non ha mai voluto incasellarsi in uno schema espressivo. Si serve della fotografia e guarda ai classici. A muoverlo è il desiderio di «rappresentare qualcosa di meraviglioso»
Giuseppe Frangi

In un sondaggio fatto poche settimane fa da una rivista specializzata su chi fosse oggi il più importante artista vivente, Gerhard Richter è risultato nettamente vincitore. Un risultato che può apparire sorprendente, per il fatto che Richter è un artista poco mediatico e quindi meno noto di altre star al grande pubblico. Ma, a parte le quotazioni record che il suo mercato ha raggiunto, Richter è anche il solo artista contemporaneo davanti al quale ci sia una sorta di unanimità: l’unico a cui si riconosca il “passo” di un classico. Cioé il passo di chi resisterà al tempo. Insomma, se dovessimo fare un’ipotesi sui nomi di cui si parlerà ancora tra un secolo, con Richter si va sul sicuro.

Chi è allora questo pittore che ha appena compiuto 80 anni, che è nato a Dresda, che ha vissuto buona parte della sua formazione nella Germania sotto il comunismo e che riuscì a scappare a Ovest appena due mesi prima della costruzione del muro di Berlino? Diciamo innanzitutto che si tratta a tutti gli effetti di un “pittore”, che quindi non insegue forme altre di espressione artistica e non percepisce come passatista questa sua vocazione. Il libro che raccoglie le sue riflessioni non lascia adito ad equivoci: «La pratica quotidiana della pittura».
Ma se andiamo oltre nell’esplorazione del mondo di Richter scopriamo che la sua idea di pittura non è esattamente quella che possiamo pensare. Innanzitutto è un’idea molto impersonale («Riesco a dipingere contro la mia volontà. E questo lo vivo come un grande arricchimento», ha scritto). In quanto tale la pittura non esprime un’opinione dell’artista sul mondo, ed è il motivo per cui tantissime delle sue opere sono tutte lavorate sui grigi: l’osservazione in Richter prevale sempre sul punto di vista. «Noi definiamo troppo velocemente la realtà, liquidandola prima del tempo», ha spiegato l’artista. Per questo Richter lavora sulle sue opere cercando di filtrare ogni soggettività, ad esempio evitando con sistematicità rigorosa ogni ricorso a uno stile che le definisse. Richter non può neanche essere classificato come artista figurativo, in quanto nel suo catalogo si trovano tante opere astratte e qualche esperienza concettuale. E nell’ambito dell’astrazione troviamo opere straordinariamente liriche come opere rigorosamente geometriche. Potrebbe essere un sintomo di eclettismo, invece è un esercizio continuo per non accasarsi mai in un ambito definito e protetto: ad esempio i grandi quadri composti di caselle colorate regolari, sembrano avere la funzione di un esercizio visivo ma anche servono a raffreddare il suo stesso ego. «Voglio essere neutrale, che è l’antitesi dell’essere ideologici», dice Richter. E l’ideologia non è solo quella dell’arte schierata, ma è anche quella dell’arte che sceglie di incasellarsi dentro uno schema espressivo. Per questo Richter ha avuto nella fotografia un punto di riferimento a cui guardare sempre: come l’immagine fotografica non crea l’immagine ma la registra, così la sua pittura cerca di seguire quella strada.

Così la pittura diventa una forma di paziente indagine sul mondo. Perché prendendo come soggetti spunti che la storia o la sua biografia gli mettono sotto gli occhi, la pittura di Richter vive nella tensione di capire, di stabilire nessi, di cercare risposte alle domande ultime che ogni circostanza porta con sé. C’è un esempio drammatico ed esemplare di quel che sto cerando di dire. Uno dei cicli più importanti realizzati da Richter è quello conservato al Moma di New York e dedicato a uno degli episodi più cupi della storia tedesca del dopoguerra: la vicenda della banda terroristica Baader Meinhof. Richter lo ha realizzato nel 1988, quindi oltre dieci anni dopo i fatti, dedicato al tragico epilogo che aveva portato alla morte in carcere dei componenti della cellula.
Sono ancora opere in bianco e nero, meditazioni scabre realizzate a partire da fotografie. C’è il trittico con Gudrun Ensslin (nell'immagine qui accanto), in tenuta da carcere, capace di un imprevisto sorriso che non sembra proprio quello di una terrorista. C’è il trittico con il profilo di Ulrike Meinhof così come venne trovata nella cella, dove era stata misteriosamente sgozzata: la bocca semiaperta nell’ultimo respiro diventa quasi una domanda disperata e appena accennata di pietà. C’è l’immagine del funerale presidiato militaremente dalle forze dell’ordine, immagine di una disperazione muta. Richter evidentemente medita su un episodio tragico della storia tedesca, usa la pittura non per giudicare né tanto meno per assolvere, ma per disseppellire quel nodo che stava depositato irrisolto, nel profondo della sua coscienza. Ha davanti a sé il mistero di persone che avevano fatto una scelta di così radicale nichilismo; biografie bruciate dall’astrazione assassina dell’ideologia.



È la pittura che scende in campo per interrogare e interrogarsi, senza pretesa di proclamare alcunché, ma senza censurare nulla. Entrando in scena ci avverte che l’ultima parola non è detta e che nessuno aspetto della realtà può essere liquidato, ma deve essere affrontato con lealtà nel suo profondo.
Per fare questo percorso Richter, artista assolutamente moderno, chiede un soccorso al classico. «Il classico mi aiuta a concrentarmi», ha detto. «Mi dà forma, contiene la mia confusione, fa sì che io continui ad esistere. Non è mai stato un problema per me. È essenziale per la vita». Lui sa che il “classico” appartiene a un mondo che non è più il nostro e che per lui è impossibile un destino alla Vermeer (per citare l’artista del passato a cui guarda con più venerazione). Eppure il confronto è sempre aperto. In una delle più belle sale della recente mostra londinese realizzata per gli 80 anni dell’artisa tedesco (la mostra ora è a Berlino e in estate sarà a Parigi) si ritrovava la variazione fatta sull’Annunciazione di Tiziano conservata a Venezia alla scuola di San Rocco. Richter la “scoprì” nel 1972 quando era nella città lagunare invitato alla Biennale. Quell’Annunciazione nella sala era messa in rapporto con un grande trittico (ecco una “struttura” classica che riaffiora…) che rappresenta una veduta di cielo con una grande nuvola al centro. Quel che attira Richter è proprio la grande nuvola: fissandola come un po’ di attenzione ci appare quasi come un volume solido e nient’affatto vaporoso. C’è una corposità, uno spessore e anche una stabilità nella forma, che non può essere solo quella di una nuvola. Vien quasi da pensare ad una gigantografia di una cellula. Del resto anche la struttura a trittico rimanda ad altri livelli di lettura. Ed è stato lo stesso Richter (che ha curato meticolosamente l’allestimento della mostra) a suggerire il riferimento a quell’Annunciazione di Tiziano, dominata da uno sfolgorìo nell’atmosfera che rende il senso misterioso dell’Avvenimento. Non si dice di più, ma con Richter la pittura stabilisce dei nessi che aprono orizzonti, scavano dentro la vita senza mai la pretesa di chiudere il discorso.

È l’approccio che l’artista tedesco ha usato quando è stato chiamato a una delle più importanti e ambiziose commesse della sua vita: la realizzazione di alcune vetrate distrutte dalle bombe dell’ultima guerra, nella cattedrale gotica di Colonia (la città dove oggi vive). Richter ha accettato la sfida, mettendosi in un rapporto di dipendenza libera dal passato. Le sue vetrate sono immense composizioni di tessere colorate che intercettano il passato in quella dimensione di sfolgorio luminoso che veniva fatto scendere sui fedeli. L’immagine non c’è più. Perché l’immagine, quell’immagine, «è una realtà irraggiungibile. È finita», dice Richter. Così il percorso che un artista oggi è chiamato a fare non può prescindere da questo limite. Ma, ci avverte Richter, «ogni opera d’arte stabilisce un’analogia». E pur percorrendo strade inedite e anche inespolarate, ultimamente siamo mossi dal desiderio «di rappresentare qualcosa di meraviglioso».