Il sole tra i vicoli

PRIMO PIANO - RIONE SANITÀ
Davide Perillo

Un bar che è diventato «un avamposto missionario». Donne che in un gesto di carità scoprono «un mondo più reale». Uomini che volevano scappare e oggi fanno festa al quartiere. Scene da un angolo di Napoli dove la “crisi” è permanente. Ma sta accadendo qualcosa che la batte

Vicolo, sottoportico, spicchi di azzurro sopra le file dei panni stesi. Giri l’angolo schivando l’ultimo motorino, risali ancora qualche metro e arrivi al portone di ferro, innestato su un muro massiccio. Visto da fuori, dice poco. E invece il cuore di Napoli batte lì dietro, Vico Castrucci numero 4, in un palazzo di cinque piani che si spalanca a sorpresa attorno a un cortile popolato di palme e limoni. Era la casa dove studiavano i padri Vincenziani destinati alla missione. Ora di seminaristi ce ne sono pochi. Ma sale e corridoi sono pieni di vita: il pensionato degli universitari, le camere per accogliere i turisti, le aule del doposcuola, i nuovi spazi freschi di intonaco e di inaugurazione. E gente che entra ed esce di continuo da quel grande appartamento con cucina, terrazza e un paio di stanze attrezzate con computer. È la sede del Centro di solidarietà che prende il nome dal quartiere: Rione Sanità, 100mila abitanti, due parrocchie e un intrico di strade e di storie.
Siamo venuti qui con un’ipotesi. Ci vuole poco a capire che non era campata in aria. Tra questi vicoli si gioca una scommessa che ci riguarda tutti. Si parla ovunque di crisi, di soldi che mancano e di certezze rimesse in discussione fino a toccare il modo in cui concepiamo noi stessi, no? Bene: qui la crisi è permanente. L’unica cosa stabile, in un ambiente in cui le parole che senti più spesso, come un ritornello, sono “disoccupazione”, “precarietà”. Persino “solitudine”, roba che sembra una bestemmia in un posto così affollato e invece è un dato reale, come le famiglie disfatte e i legami strappati. Aggiungeteci i guai di sempre, quelli che le cronache appiccicano alla città come un immancabile francobollo su una cartolina a tinte fosche (la camorra, la droga, le inchieste giudiziarie…), e il risultato è una condizione in cui ci sarebbe tutto per sentirsi mancare l’aria nei polmoni e la terra sotto i piedi. Per sentirsi in crisi, appunto.

Inferno e paradiso. Invece no. Non solo qui c’è gente che vive, ma è un posto sempre più vivo. Dove, alla faccia dei tempi cupi, «sta rifiorendo tutto», come dice Tonino Romano, responsabile di Cl in Campania, prima di raccontarti nomi, storie «e fatti che vedrai tu stesso, andando in giro». Eccola lì, la scommessa: venire a vedere un’umanità che, crisi o no, può attecchire ovunque. E capire che cosa la rende possibile. Che cosa ha cambiato le vite di Tonino, di Felice, di Mario e degli altri neolaureati che vent’anni fa, invece di inseguire la carriera, decisero di legarsi a questo posto. E che cosa ha convinto tanti altri, nati e cresciuti qui, a non andarsene, perché tra i vicoli è successo qualcosa che sta cambiando tutto. È entrato un sole «ca a pittato tutt’e mure», ha ridipinto i muri, come canta Alfredo Minucci, voce del quartiere, in una canzone che parla di casa sua ma racconta la vita di molti.
Prendete Nando, il padrone del bar affacciato su via dei Vergini. Sostiene Mario che il suo, ormai, è «un avamposto missionario: sta lì per dire a tutti quello che ha incontrato». Un avamposto annunciato dai tavoli all’aperto, accanto alle bancarelle, e da una vetrina con un pezzetto di storia stampato sopra (“Antica Gelateria dei Vergini, dal 1928”) e la cronaca incastonata dentro, se è vero che sulla saracinesca, fino a qualche tempo fa, c’era pure un foro di pallottola, a ricordare che ha ragione Nando quando ti dice in una frase che cos’è questo rione: «Un incontro tra inferno e paradiso». Sembrerà strano, ma l’assaggio di paradiso sta lì, nelle facce contente che vedi davanti al bancone dove Pasquale serve caffè e sorrisi. Basterebbe la sua storia a far capire che qui sta succedendo qualcosa di strano. Qualche anno fa faceva il piastrellista. Un lavoro andato male, un buco nel bilancio di famiglia, una catena di guai che lo avevano messo in ginocchio, altro che crisi. Poi, l’incontro. E quella frase di Tonino che gli si stampa dentro: «Nun te preoccupa’, Pasqua’: qualcosa succederà». «Mi sono chiesto per giorni: ma c’adda succedere?». E invece era già successo. Era l’inizio di un’amicizia, concretissima, che si è portata appresso pure il lavoro, proprio nel bar di Nando. Dove, nel frattempo, era iniziata un’altra vicenda, che il padrone di casa ti racconta nel retrobottega, davanti ai cimeli del Napoli Calcio. «Loro già li conoscevo di vista: Tonino abita qui sopra. Buongiorno, buonasera e poco più. Poi, un giorno, entra sua moglie e mi dà un volantino che invita a un incontro alla Mostra d’Oltremare. Ho detto a mia moglie: secondo me è bella gente. Jamm’a vedè».

«Prendiamoci un caffè». Sono andati. E quello che hanno visto e sentito, sul palco accanto a Tonino, era don Julián Carrón, la guida di Cl, e la proposta cristiana. Quella serata di due anni fa è stata un momento di svolta, lo dicono tutti nel Rione. E Nando è tra i più toccati. Lo racconta in giro. È lui a tirarsi dietro pure Alfredo, amico da una vita e cantautore con dentro una fame di bello e di vero che spunta prepotente da ogni verso delle sue canzoni. Amicizia a prima vista. E senza niente di sentimentale. La prima volta che suona davanti a quella strana gente, Alfredo resta colpito: «Ascoltavano i testi per davvero. Non mi era mai successo così». C’è un’altra cosa che colpisce Nando, man mano che il rapporto con “quelli dei Vincenziani” si fa più profondo. «Sono tutti laureati, professionisti… Capire perché hanno deciso di vivere qui, invece che nella Napoli dei salotti, per noi è stato come accendere un motore. Ci ha fatto scoprire una prospettiva. I problemi non spariscono, ma si affrontano in un modo diverso». Diverso. Come l’inizio della giornata, che per Nando è quasi un rito: tira su la saracinesca alle 6 e si ritrova davanti la faccia di un ragazzo della zona, sempre lo stesso, uno dei tanti con i problemi di tanti, qui. «Prima, era facile dirgli: per favore, vattene che devo lavorare. Ora non posso. Gli dico: entra, che ci prendiamo un caffè».
Fuori dal bar inizia un giro per vicoli zeppi di storia, dove i nomi tramandano una carità mai perduta (Santa Maria Succure Miseris, Monte dei Poveri Vergognosi, ’a Misericordiella…) e pure i mattoni parlano di popolo e nobiltà. «Quello lì, con le scale incrociate, è Palazzo Sanfelice: vengono a studiarlo da tutto il mondo», racconta Massimo Rippa, architetto e curatore di una guida al quartiere appena uscita (vedi box nella pagina seguente). «Là dietro c’è la casa dove è nato Totò. Sopra, il Ponte dei Francesi, quello che ha tagliato via il quartiere dal passaggio dei reali e ha dato il via alla sua decadenza». Poco più avanti è venuto ad abitare padre Alex Zanotelli, l’ex direttore di Nigrizia: ha traslocato qui le battaglie antipovertà che faceva in Africa. Napoli come Nairobi: terra di frontiera. La Basilica è dedicata a Santa Maria. Entri in sagrestia e nella piccola teca-museo, tra i reliquiari, gli oggetti sacri e il busto di san Gennaro, c’è il pallone del Napoli. Un popolo, appunto.

A casa del Santo. Anche quell’altro palazzo, quasi di fronte ai Vincenziani, ha una storia ricca: è la casa di Alfonso Maria de’ Liguori, il santo settecentesco di Tu scendi dalle stelle. La sua erede, donna Paola de’ Liguoro, vive ancora in quei saloni. Ci è tornata da poco, dopo una vita passata a Roma, proprio per arrestarne la decadenza. «In piccolo, per me questo edificio rappresenta Napoli. Se riesco a sistemarlo, in qualche modo ho aiutato a sistemare la città». Le chiedi dove poggia la sua speranza. Risposta: «Non so. Io per natura sono ottimista, ma per sperare servono lavoro e cultura. E qui sono parole difficili». Lavoro e cultura, cioè educazione. Si parla la stessa lingua. E infatti, si accende un altro incontro. Donna Paola si ritrova invitata da Ubaldo alla festa del quartiere, la sera stessa: «Venga a vedere». Ci sarà.

«È la mia famiglia». Il giro prosegue. Incroci, saluti. Una signora scambia qualche frase sottovoce con Mario. Lui sorride: «Non vi preoccupate, signo’». Pochi passi, e spiega: «Chiedeva quando possiamo portare il pacco». Il “pacco” è quello dei Banchi di solidarietà: viveri per le famiglie più bisognose, portati da volontari che si coinvolgono in un rapporto di amicizia. Nel Rione ce ne sono quasi duecento, di assistiti. Il bisogno cresce così in fretta che c’è voluto uno stop di qualche settimana per riorganizzarsi. In quei giorni, fuori da Vico Castrucci è capitato di vedere gente che bussava, arrabbiata. «Perché non portate più i pacchi? È tutto un imbroglio, ve li tenete voi». «Sai che è successo?», racconta Felice Siciliano, responsabile della Cdo locale: «Anna, una delle donne che abbiamo incontrato e che abita proprio lì davanti, si è affacciata dal suo basso e si è messa a litigare per difenderci. “Non vi dovete permettere: questa gente è la mia famiglia”». Sarà per questo che ai primi volontari, agli amici del movimento, man mano se ne sono aggiunti altri. Donne che prima ricevevano il pacco, e ora si fanno in quattro per portarlo agli altri. «Giorni fa abbiamo fatto un’assemblea», dice Tonino: «Per provocarli, a un certo punto ho detto: visto che ci sono problemi, forse è meglio smettere». Si è alzata un’altra Anna, una mamma del Rione incontrata da poco, è ha risposto: «Ma tu si’ pazzo? Per me la caritativa è troppo importante. Mi ha fatto scoprire una vita nuova. Ha salvato me e mio marito. Perché dobbiamo smettere?».
Usa proprio queste parole, Anna, anche quando la incontri di persona, giù al Centro: «caritativa» e «vita nuova». E ce ne aggiunge altre che mettono i brividi, per quanto scavano in profondità. «Non c’è una persona che non abbia un valore, qui dentro. Mi hanno aiutato a conoscere un mondo più reale. Oggi non posso farne a meno. Devo stare qua. È una cosa mia». È impressionante vedere le frasi di don Giussani spuntare, tali e quali, dalla carne della gente. «Guarda, la Scuola di comunità, qui, è davvero una vita», spiega Tonino: «Non puoi fare discorsi: dopo un minuto non ti seguono più. È bellissimo. Saltano gli schemi e puoi imparare da quello che dicono». Imparare dall’altra Anna, quella della litigata fuori dal portone, che un giorno va dal medico e davanti a certe chiacchiere scettiche da sala d’aspetto, dice più o meno: «Signori miei, pure io vivo una vita difficile e ho un sacco di guai. Ma ho incontrato qualcosa di bello che mi aiuta a viverla». «E che cos’è? Chi sei?». «Io sono Anna-di-Comunione-e-liberazione». Così, tutto d’un fiato, perché quell’aggiunta ormai è parte di sé e quindi del suo nome. Basta guardarla in faccia, per capire che è così. Sentirla raccontare del dolore, dei figli, dell’incontro imprevisto che l’ha portata a sposare in chiesa suo marito, dopo vent’anni di vita assieme (il celebrante? Don Eugenio Nembrini, bergamaschissimo rettore del Sacro Cuore di Milano, che da queste parti è popolare come in Kazakistan, dove stava in missione), e che oggi la spinge a portarselo qui al Centro, ogni volta che è possibile, «perché può sempre succedere qualcosa. Mia nonna diceva: in un’ora, Dio lavora».

Punto fermo. Altro che, se lavora. Ma bisogna guardare fino in fondo quello che fa, per evitare il rischio di arenarsi sui luoghi comuni, sulla Napoli “pizza, mandolino e cuore in mano”. I problemi restano, e seri. La droga circola ancora. L’usura aumenta («solo negli ultimi giorni sono venuti a chiederci aiuto in quattro», spiegano al Centro). Persino il gioco fa la sua parte, con madri di famiglia che passano nottate intere a giocare - e perdere - a tombulella. «Ma chi ha incontrato il positivo si attacca e non lo molla, perché ha capito che c’è un punto su cui fare leva», dice Ubaldo, uno dei primi ad arrivare qui, da universitario.
Erano gli anni Ottanta. Gli scugnizzi del Rione vedevano quei giovani entrare e uscire dal portone di Vico Castrucci e cominciarono a chiedere: «Ma che ci sta là dentro?». Il doposcuola iniziò così, quasi per caso. E piantò radici in una frase che Tonino si sentì dire da don Giussani: «A Napoli cambia tutto, sempre. C’è bisogno di un punto fermo in mezzo al caos». Il punto fermo, grazie anche alla paternità dei Vincenziani, è diventato quella sede. «Finiti gli studi con alcuni amici decidemmo di restare a Napoli», racconta Mario. «Forse c’era un po’ di incoscienza. Ora non è più così: la consapevolezza è piena. E non cambieremmo questa scelta per niente al mondo».

Popolo da educare. Ha ragione. Mettetevi nei panni loro, di gente abituata dalla nascita alla litania del nun ce sta nient’a fa’, non si può fare niente. E che invece un passo dopo l’altro, nella propria esperienza, vede fiorire una possibilità reale di salvezza. Qualcosa che funziona anche lì. Che vince anche lì. Pensate che cosa dev’essere legarsi sempre di più a quel Qualcosa, a quel Fatto incontrato anni prima e che più vai avanti, più genera umanità. In te stesso, e attorno a te. Come fai a immaginare di andartene? Tonino ricorda spesso un’altra frase di don Giussani. «Eravamo in macchina sulla tangenziale. Mi fece accostare in un punto da cui si vedeva tutto, guardò la città dall’alto e mi disse: “Tonino, qui c’è ancora un popolo. Però va educato”. Stiamo capendo adesso che cosa voleva dire».
Educazione. Altra parola chiave. Qui non sta solo nell’opera del Centro, o nelle due scuole (milletrecento studenti) prese in carico, nella polisportiva di cui anche Mario si occupa e che mescola i ragazzi della Sanità con quelli della Napoli-bene (fatto difficile, da queste parti) o nell’amicizia gratuita con Pippo Angelico, l’imprenditore milanese che qui è di casa (v. Tracce, n. 11/2006). Sta anche in momenti come l’incontro pubblico di un anno fa sul “caso monnezza”, in mezzo a quell’emergenza che vista dal resto del mondo era uno scandalo, ma vissuta da qui era molto peggio. «Tornavi la sera e non potevi entrare in casa», racconta Felice. «E ti sembrava di non poterci fare niente».
Da lì la domanda insistente, quasi urlata: «Che c’entra con questo l’esperienza cristiana? Perché se non c’entra, vuol dire che stiamo sbagliando tutto». In quella serata al Teatro Mediterraneo, tra testimonianze, canti e racconti di chi stava sulle barricate, molti scoprirono che c’entrava, eccome. «Abbiamo incontrato moltissime persone, lì», racconta Tonino. «Dopo, dicevano tutte: “Eravamo depressi, cercavamo una distrazione. E invece ci siamo trovati di fronte a una proposta per vivere”. Molti di loro non si sono più staccati». Sarebbero passati ancora mesi prima che arrivassero i camion a sgombrare i vicoli, ma sono stati mesi vissuti in maniera differente. «C’era un punto su cui costruire che non partiva solo da una reazione», spiega Felice. Dipende dal terreno su cui appoggi i piedi, insomma. E dal fatto di non essere solo. Come per la crisi, oggi.

Progetti e realtà. Ci ripensi mentre si torna nei corridoi della casa. È lì la festa. Musica e sfogliatelle. Pesca di beneficenza e frittata di maccheroni. Una tombola fatta come si deve, numeri della smorfia inclusi, e la testimonianza di don Paolo, che sta in Paraguay assieme ad Aldo Trento. E bambini, studenti, madri di famiglia… Il popolo del Rione, che festeggia se stesso e il Natale in arrivo sotto uno striscione fatto apposta per raccontare gli ultimi mesi: «Un incontro che corrisponde al di là di ogni aspettativa». «Hanno fatto tutto loro, mica noi», dice Mario.
“Loro” sono Anna e Pina, Ciro e Antonietta, e tanti altri. Mamme e papà del doposcuola, dove oggi va un’ottantina di ragazzi e altri sono in lista per entrare. «Li aiutiamo a studiare, che nella loro situazione è fondamentale. Ma fanno anche sport o i laboratori», spiega Annarita, una delle responsabili. «Il criterio è seguire la singola persona: se uno è portato e vuole imparare a suonare la chitarra, per dire, cerchiamo di fargliela studiare». È così che stanno diventando uomini quei volti bambini che ti guardano dall’album delle foto, mentre Maria Assunta sfoglia pagine e storie. «Questo è Carmine, uno dei primi. Quando arrivò qui, aveva sempre la faccia cupa. Ora è riuscito a diplomarsi. Qui, invece, c’è Pietro: semiautistico, non solo timido come ci avevano detto all’inizio. Sta imparando da un artigiano a lavorare la ceramica. E con il tutor che lo accompagna ora si mette pure a cantare». E ancora: la signora che, morto il marito, viene qui tutti i giorni a fare da mangiare; le altre che - sempre come caritativa - puliscono la sede; la mamma di tre figli che aveva già deciso di abortire il quarto. «Ci abbiamo parlato e abbiamo capito che era una questione di povertà», racconta Maria Assunta. «Le abbiamo dato una mano. La bambina ora c’è. Ma la cosa più bella è il suo cambiamento. Vedi, qui non si tratta di fare progetti, ma i conti con quello che la realtà ci mette davanti. I bisogni sono talmente grandi che se avessimo la pretesa di rispondere a tutto, ci perderemmo». E invece? «Tante volte il problema dell’alcol rimane, quello dei soldi pure», dice Annarita. «Però li guardi e li vedi contenti. Ti chiedi: come è possibile? E allora scopri che la carità la stai facendo a te».

La voce di Dio. Le stesse parole di Patrizia, che ha appena cambiato lavoro per tornare al Centro a tempo pieno: «Quello che facciamo con i ragazzi ci aiuta a scoprire noi stessi. Qui c’è una ricchezza più grande del limite». L’impressione, netta, è di una resurrezione, di un tessuto umano già ricco di suo che nell’incontro con il cristianesimo fiorisce appieno. «Ma non è solo un rifiorire», precisa Mario: «È scoprirne l’origine. Ci siamo chiesti tante volte se ne valeva la pena di stare qui. Ora questa domanda non ce la facciamo più. Siamo liberi: potremmo cambiare tutto pure domani, se ci fosse bisogno. E forse il cristianesimo è proprio questo: poter ricominciare in ogni istante, seguendo quello che la realtà ti suggerisce».
Fine della serata. Il portone si chiude, il cuore di Napoli no. Continua a battere mmiezo ’a Sanità, come dice una delle canzoni più belle di Alfredo. Parla del Rione, del suo Rione. Del mistero che lo attraversa («Nun se po’ capì / là se sente pure ’a voce ’e Ddio»). Di come si possa guardarlo in faccia, e riconoscerlo, allargando l’uocchie ca so’ astritte. E arriva al fondo del desiderio che, crisi o no, ci accompagna tutti: «Pure dint’o male / ’o bbene vuo’ truvà». Altro che crisi.