Federico Bencovich, "Adorazione dei pastori" (part.)

Le diciannove ore di Giacomo

Da Bologna, una storia che mostra cosa può succedere in noi (e attorno a noi) quando cerchiamo ciò che sostiene la vita (da Tracce, dicembre 2013)
Alessandra Stoppa

È così raro vedere la realtà per davvero, che se succede si è presi dal timore di essere visionari. Pare “troppo” che ad un certo punto tutto delle giornate diventi segno. Ma se un bambino, «il più scassato di tutti», come dice suo padre Mirco, vivendo meno di un giorno ha reso più vita la vita di tanti, forse c’è una profondità che di solito non si vede. E bisogna capire cos’è successo. A Bologna. Ospedale Sant’Orsola.
Il reparto di Ginecologia è noto per le tante interruzioni di gravidanza e l’attività di fecondazione in vitro. Qui il primo ottobre è venuto al mondo Giacomino, con una malformazione incompatibile con la vita. Di solito un bambino così è scartato dall’inizio. Lui sarebbe nato, ma per morire, subito. Le cose invece sono andate diversamente. In poche ore ha rivoluzionato il reparto, e il cuore e il lavoro di chi c’era, tanto che oggi si parla di un percorso di comfort care per neonati come lui. E qui era inimmaginabile fino al giorno prima.
Ma tutto in questa storia è stato così. Prima che arrivasse Giacomo, «stavo vivendo incastrando ogni cosa e finendo incastrato io. Anche nel rapporto con mia moglie», racconta Mirco. Lui e Natascia hanno tre figli, Francesca, Federico e Michela, la primogenita, che è morta subito dopo la nascita undici anni fa. La notizia di aspettare il quarto arriva in uno dei momenti più difficili del loro matrimonio. «Ricominci a progettare, provi a ricomporre... È solo peggio». Ma era stata fatta a Dio una domanda molto vera sul loro rapporto. «Non riuscivo a rassegnarmi che la promessa del matrimonio fosse persa», dice Natascia: «Gridavo da due anni dentro di me: Signore, mi manchi Tu!».
In quei giorni, lei è agitata, non dorme pensando al nuovo bambino, e una mattina confida a Mirco: «Sento di dover passare da una strada stretta». All’ecografia del terzo mese, la diagnosi è spietata: anencefalia. Giacomo, come Michela, non ha la scatola cranica e non vivrà. Il ginecologo continua a parlare, ma loro non sentono più niente. Lui è già pronto a prenotare l’aborto. «Lo abbiamo fermato. Ma io ero disperata. Il senso d’ingiustizia era terribile e non era automatico continuare la gravidanza». Si isolano un po’, per decidere, ma è tutto muto. Il primo bisbiglio di bene viene dal dialogo con il ginecologo Patrizio Calderoni, che gli suggerisce di chiedere aiuto all’arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra. Dubbiosi, vanno.
Dal Cardinale Natascia vuole sapere se quella di un bambino che non può sopravvivere è vita. «Avevo stretto nelle mie braccia Michela. Pensi che non lo sapessi?», dice con tenerezza: «È che cercavo una scappatoia». Però non si aspetta quella risposta di Caffarra: «Voi non avete le forze. Il Signore vi sta chiedendo di correre, ma avete i piedi lacerati. Dovete chiedere le forze a Lui. Io sono con voi. Dirò sempre una messa e quando volete sarò qui. Natascia, chiedi alla Madonna il miracolo, che tra donne vi intendete». Le dice di mettersi davanti alla croce e di non ragionare, di affidarsi, di dire: salvami Tu. Le mette le parole in bocca. «È quello che mi serviva, perché ero così arrabbiata che non riuscivo nemmeno a pregare».
Escono dalla Curia senza dubbi. Si aspettavano la “predica” mentre quel giorno inizia un’amicizia impensabile. «Ha visto il nostro bisogno», dice Mirco: «Nel suo abbraccio, sono stato certo di potermi fidare». Da quel momento, li ha raccolti nei momenti più difficili, nelle decisioni, fino a come dirlo ai figli o se fare il cesareo. Questa compagnia hanno iniziato a vederla in tutto. Ad ogni picco di dolore, accadeva qualcosa, «a ciclo continuo», dice Mirco. Una mattina torna a casa dal lavoro perché Natascia è in crisi, urla e piange. Poco dopo arriva una telefonata, don Julián Carrón li riceve. «Sono partita per Milano già certa che era Cristo a rispondermi». E Mirco racconta: «Lui voleva verificare con noi che la fede vince nella vita. Mi son detto: se scommetto su quello che ho visto, non perderò». Escono da lì che è cambiato tutto. «Ci sembrava di venir via dalla festa del nostro matrimonio». In treno, al ritorno, si guardano e parlano come non accadeva da tempo.
È solo l’inizio. L’ecografia del quinto mese è a colori e Natascia vede meglio le malformazioni, più gravi del previsto. «In quel momento l’ho avuto chiaro: Gesù lo vuole così. Lo ama così. Sono crollata. Come una bambina quando capisce che il padre ha già deciso». Il grido si fa sempre più acuto. «Ho iniziato a chiedere solo Gesù, che non mi lasciasse, che tutto fosse pieno di Lui». Anche Mirco ha bisogno di urlare, e va da Caffarra. «Perché Dio ha scelto così per noi?». E lui: «Caro Mirco...». «Poteva bastarmi quel caro. Ma mi ha detto: “A questo non ho una risposta. Nessuno su questa terra l’avrà per te. Ma quello che state sperimentando è già il centuplo, il disegno misterioso rimane”. Non poteva rispondermi. Ma non mi ha lasciato nel vuoto».
Li ha fatti guardare. Nell’attesa del miracolo, c’è un dolore soffocante, ma nell’attesa di Giacomo, no, il loro sì diventa una strada sempre più intensa. Tutto parla dentro ad un solo grande dialogo. La dedizione degli amici, un messaggio, un caffè in cui si va dritti al cuore, o Andrea, arrivata dal Paraguay per trovarli, che in stazione s’inginocchia davanti al pancione. «Sembrava folle», dice Mirco: «Ma ho provato una strana corrispondenza. L’avrei capito meglio mesi dopo».

Quel pianto. Più si apre la domanda, più scoprono compagni di cammino. Tra gli amici di sempre e quelli nuovi. «È stato un abbraccio di tutta la Chiesa», continua Natascia: «Abbiamo fatto tanti incontri. Ma ognuno, a suo modo, era un tratto di Gesù». Arriva la lettera di papa Francesco. Poi quella di papa Benedetto... «Avevamo scritto al mondo intero, soprattutto ai monasteri. Gli amici facevano i pellegrinaggi. C’era un popolo unito per una presenza». Che sarebbe venuta al mondo di lì a poco. Primo ottobre. Il cesareo è fissato. «Mi dispiaceva perché non si poteva fare il 2», dice Natascia. Avrebbe preferito che Giacomo nascesse al Cielo nel giorno dei santi Angeli custodi.
I cento passi di Mirco dal parcheggio al reparto sono accanto a sua moglie e al piccolo in grembo. «Ero in pace. Non potevo che ringraziare». Entrano in ospedale con il miracolo più grande che esista, come diceva don Giussani, «il dolore che diventa gratitudine». E la gratitudine che «diventa la sorgente di novità per il mondo». Natascia fa la Comunione ed entra in sala parto. Fuori gli amici dicono il Rosario con Mirco. Il bambino nasce. E piange. «Questo non ce lo aspettavamo». Il professor Guido Cocchi, responsabile di Neonatologia, è ancora emozionato: «Eravamo preparati a un cuore che avrebbe rallentato in pochi minuti. Un decesso rapido. Invece Giacomo ha pianto. Forte. Di solito non hanno il tempo e le forze di farlo. Poi, ci aspettavamo una crisi respiratoria, ma passano i minuti...». Giacomo vivrà diciannove ore. Fino all’alba del giorno degli Angeli custodi.
Cocchi lavora qui da 36 anni. Ha visto di tutto. «Ma questa volta è passato qualcosa di nuovo. Per la reazione di Giacomo e per quello che è successo intorno a lui:?la collaborazione che si è generata tra reparti di solito in frizione, e la forma che ha preso l’accompagnamento, per la prima volta». Dopo due ore che Giacomo scalcia e si fa sentire, lo portano con la mamma in una stanza tutta per loro del reparto ordinario, come tutti i bambini. Senza separarli. «È stato tutto intensissimo. Non per un’organizzazione, ma solo per una presenza che si è imposta», racconta Chiara Locatelli, neonatologa. Di norma vengono portati in terapia intensiva. Tra i colleghi c’è qualcuno dubbioso, perché ci sono dei rischi in una scelta “fuori protocollo”. Per altri è proprio assurdo che Giacomo sia nato. Un dolore inutile. Ma chi entra in quella stanza cambia idea. Solo vedendo. «Davanti alle perplessità di una mia collega, le ho detto: vieni con me. Quando è stata lì si è commossa. C’era un’intensità così forte... Ho pensato che sia stata la stessa della notte di Natale».
Tutti desiderano stare lì. Un pellegrinaggio di amici. Lo salutano, ma poi non se ne vanno. Infermieri e medici che chiedono di questo bambino, ma è vivo? Come sta? Mirco non si capacita: «Perché è una notizia per tutti?». Giacomo è semplicemente lì, piange perché ha fame, cerca la mamma, ascolta la voce del papà e dei due fratellini che sono venuti a conoscerlo. «Quando eravamo noi quattro», dice Mirco, «il dolore, le fatiche di quei mesi e dei mesi prima... tutto era in pace, di fronte a Giacomino».
Dopo una notte a guardarlo, Natascia vede che non respira bene. «Mi ha chiamata e io sono corsa a prendere la morfina», racconta la Locatelli, «ma non ho fatto in tempo.Quando è morto, volevo lasciarglielo il più possibile fra le braccia... Facevo fatica io a staccarmene. E mi sono accorta che fino all’ultimo pensi che il miracolo sia in quello che vuoi tu». Invece Natascia glielo dà, certa, piangendo: «Lui è già dove deve essere». Dopo due mesi, lei si chiede ancora che cosa vedesse la gente in quella stanza. «Giacomo è proprio venuto tra noi per dire: io ci sono e sono amato come sono. Tutti abbiamo dovuto fare i conti con questo. Per tanti mesi ho chiesto al Signore di mostrarmi la sua tenerezza e potenza. Queste due parole, sempre. E mi ha esaudita. Ha trasfigurato la realtà». Giacomo ha conquistato il mondo intorno a sé, ha generato senza saperlo, senza volerlo, come i piccoli santi innocenti di Péguy.

«Dov’ero fino a oggi?». Quando, alcune ore dopo, entrano in stanza la caposala, l’ostetrica e il responsabile della sala parto, Mirco e Natascia si allarmano. «Vi vogliamo ringraziare. Il nostro lavoro è cambiato. Ora scriveremo alla Direzione sanitaria per iniziare un “percorso Giacomo”...». Inconcepibile, qui dove curare è solo guarire. «Da tempo con alcuni colleghi stavamo studiando come proporre il comfort care», racconta Calderoni: «La presenza di Giacomo ha superato i progetti. E mi fa desiderare di avere gli occhi sempre aperti. Perché Gesù mi passa accanto tutti i giorni».
A volere fortemente che l’esperienza di Giacomo diventi un metodo è stata Maria Antonietta Graziano, la caposala. «Quel giorno è successo tutto in modo straordinario, ma spontaneo. Naturale». È ostetrica da 33 anni. Mai si è posta il problema di un bambino come Giacomo, di solito vengono trasferiti su altri team. Ma quando sa che la mamma non vuole separarsene, si rende disponibile. È un fiume in piena: «Vedere il sorriso di quella donna. Non si è mai lamentata, non era scostante. Non ha detto niente. Ha preso il suo bambino per mano e l’ha accompagnato all’altra vita. Guardi che dalla morte si scappa! Sa che a un certo punto mi sono dimenticata che lui aveva una patologia? È stato bellissimo... Io e i miei colleghi abbiamo potuto dire sì». In che senso? «Mi sono detta: ma dov’ero io fino a oggi? Ho capito che ero stata anonima fino al giorno prima, capisce?». Dice che si è svegliata «da un sonno», in cui non sapeva di essere:?«Mi ha aperto gli occhi. E una nuova frontiera di lavoro».
Mirco al cimitero s’inginocchia pensando ad Andrea, l’amica in stazione, lei «aveva capito che Gesù era venuto a farci visita». Gli manca suo figlio. «Ma quando penso a lui, penso a dove vuole rimanere attaccato il mio cuore». Un giorno di questi, Natascia si è accorta che si stavano incastrando come ai vecchi tempi e ha avuto paura: «Tutto questo ha cambiato il mondo e non ha cambiato noi? Invece, è un fatto. Bisogna guardarlo, cercarlo. La domanda è più grande, molto più grande, ma proprio perché il Vero l’ho visto».
Mirco racconta di come traballa nel quotidiano, non è che ora vede la realtà da un piano più alto. «La domanda che avevo prima di tutto questo era una: essere libero. Era la stessa quando ho saputo di Giacomo ed è la stessa adesso. Il fatto è che ho visto che il Signore mi ha preso nel mio limite, mi ha dato il Suo abbraccio carnale e mi ha detto: “Con me puoi esserlo”». È come l’immaginetta di Giacomo, un particolare del Giudizio Universale del Beato Angelico, dove un angelo custode accoglie in Cielo il suo protetto e lo abbraccia come lo attendesse da sempre, come sono stretti già ora.