Don Massimo Cenci.

«Sono tuo, o Cristo, salvami»

Dal Brasile, il Vescovo di Parintins ricorda l'amico di una vita, scomparso l'11 maggio. Il loro rapporto, l'incontro con don Giussani che li aiutò «a vivere la missione “da subito”». Fino alla separazione. Che è un «nuovo inizio»
monsignor Giuliano Frigeni*

Un amico donato ed ora “ripreso” da Colui che ci ha resi compagni per 44 anni perchè potessimo essere fedeli alla nostra umanità e alla missione a cui ci ha chiamati. Nel seminario del Pime a Monza ci siamo incontrati, io e Massimo, con lo stesso desiderio di vivere fino in fondo la vocazione missionaria che ci aveva affascinati ascoltando le testimonianze di tanti vecchi e giovani sacerdoti che tornavano da Cina, Giappone, Birmania, Bangladesh, Brasile e dalle missioni africane. Il clima culturale ed ecclesiale dei primi anni della nostra amicizia (l’inizio fu nel 1968) era investito da un desiderio di rinnovamento, causato dal vento dello Spirito, che aveva scosso la Chiesa con l’avvenimento del Concilio Vaticano II. Anche nelle università, nelle fabbriche, nelle parrocchie e nei seminari si respirava una voglia di cambiare. L’incontro con Massimo, per me, è stato il dono di un amico che non mi ha permesso di “scivolare” nell’utopia di un cambiamento che fosse il frutto di una rivoluzione delle strutture. Massimo aveva messo a fuoco la sua umanità e cercava qualcuno con cui condividere tutto: la fede, la vocazione, la preghiera, lo studio. Senza aspettare il giorno in cui qualcuno ci avrebbe consacrati sacerdoti e mandati in missione.

Con noi c’erano tanti amici del Pime che volevano questo e, per un tratto di strada, abbiamo vissuto in tre questo desiderio di una vita di comunione che parlasse da sé. Che non avesse bisogno di spiegazioni: era solo un incontrarci. Così fummo aiutati dai nostri formatori a non perdere il cammino e, strada facendo, Dio ci ha fatto conoscere altri amici che proprio in quegli anni erano guidati da un sacerdote milanese che Massimo aveva iniziato a seguire nell’oratorio della sua comunità a Bresso: don Luigi Giussani. Nella tempesta del Sessantotto, molti avevano lasciato non solo il seminario, ma anche gli oratori e l’Azione Cattolica. Numerosi studenti e universitari abbandonavano il metodo e l’esperienza che Giussani aveva proposto e vissuto con centinaia di giovani e adulti, nelle scuole e nell’università, da oltre quindici anni.

Fu così che ci trovammo in sintonia con la tenace e lucida proposta che Giussani faceva a tutti sintetizzandola nell’espressione “Comunione e Liberazione”. Quando abbiamo incontrato Giussani e gli abbiamo detto che eravamo seminaristi del Pime ci siamo sentiti non solo abbracciati, ma educati ad andare fino in fondo a quel dono che il Signore ci aveva fatto ed è diventato, per noi due, Padre e Amico. Una guida sicura di cui potevamo fidarci perché ci ha offerto tutta la sua umanità, e tutti gli amici che lui aveva, per aiutarci a vivere la missione “da subito” e poi in Brasile, dove è venuto a trovarci insieme ad altri missionari del Pime e del Movimento di Cl. Mai sarei stato capace di seguire tutta questa strada se non avessi avuto vicino Massimo, che sentiva nella sua carne quanto era essenziale la Presenza di Cristo nella nostra amicizia, negli amici del Movimento e quindi nella Chiesa tutta intera. Ma, sopratutto, nella Chiesa Missionaria piena di difficoltà, sfide, pericoli.

Mentre ero aiutato a star dietro e ad obbedire a chi aveva un giudizio più chiaro e più vero del mio, offrivo a Massimo, e agli amici che avevamo in comune, ciò che mi era dato di capire e di sperimentare nel mio cuore, ciò che di bello vedevo crescere in Massimo e in tutti quelli che si lasciavano coinvolgere nelle nostra amicizia. Questa veniva continuamente corretta e raddrizzata dalla vita reale della missione, dagli impegni a cui il Pime ci chiamava, dalla crescita della maturità del Movimento che veniva riconosciuto anche dal Papa. Così ci siamo trovati a compiere, nell’obbedienza, passi sempre più impegnativi per le responsabilità nel campo educativo di futuri sacerdoti: come rettori del seminario, padre Massimo a Manaus e io nel seminario del Pime a Florianopolis. Appartenere al Pime, al Movimento, alla Chiesa Missionaria significava vivere l’amicizia tra noi come segno della Misericordia di Cristo di cui sentivamo un inesauribile bisogno. Ci siamo così richiamati al sacrificio della nostra “separazione” quando a Massimo è stato chiesto, prima di lavorare nella Nunziatura Apostolica a Brasilia, poi a me nel compito di Vescovo a Parintins e subito dopo a lui di ritornare in Italia, a Roma, per servire la congregazione di Propaganda Fide, prima come padre spirituale nel seminario Urbaniano e poi come sottosegretario.

Ora, all’improvviso un’altra “separazione” che è per me un nuovo inizio di questa amicizia che mi è stata data per essere fedele come lo è stato Massimo in tutto ciò che il Signore gli ha chiesto di fare. Il Papa lo stimava e lo amava perché agli occhi suoi era un “umile servitore nella vigna del Signore”, che non dimenticava mai la sua umanità e la sua debolezza. E per questo Massimo ha sempre gridato con tutto sè stesso: «Sono tuo, o Cristo, salvami». In tanti anni non ho mai visto Padre Massimo abbandonare qualcuno perché fragile o peccatore: seminaristi, giovani, coppie, sacerdoti, missionari, consacrati. Chiunque sentisse nella propria carne o nei rapporti la ferita del peccato originale trovava in Massimo non solo la Misericordia dell’abbraccio di Cristo e della Vergine, ma a tutti offriva la sua amicizia come metodo per vivere nel desiderio di raggiungere la felicità e quel Destino che ora vede e contempla. Ora a noi non resta che continuare a rimanere fedeli all’amicizia che ci è stata donata con abbondanza di volti precisi, pieni di concretezza. Come è stato ed è padre Massimo per me e per molti amici che lo hanno amato così com’era, perché ci ha sempre spinti ad andare oltre la nostra povertà per vivere solo della ricchezza dell’Amore di Cristo. Che è cio che abbiamo di più caro.

*Vescovo di Parintins, Brasile