Volontari al lavoro in ristorazione.

DAL MEETING / 2 Dal caffè al capoturno, così ho scoperto la gratuità

«Solo chi riceve sa dare». Lo dicono i volontari della ristorazione, tornati a casa più ricchi dalla settimana riminese. Ecco una seconda puntata delle loro testimonianze

È la terza volta che lavoro al Meeting, ma solo quest’anno ho cominciato a intuire cosa significa veramente la gratuità. Prima, pensavo si riducesse al fatto di venire a lavorare gratis. Ma non mi bastava. Ho capito che la gratuità è innanzitutto uno sguardo, un voler bene all’altro senza ritorno. Questo è stato evidente nel rapporto con la responsabile della gelateria, che mi era stata dipinta come una persona dura. Il pregiudizio con cui partivo non poteva, però, essere la misura del mio sguardo di tutta la settimana: non avrebbe retto... Mi sono detta: «Marta, tu hai la grazia di appartenere a un luogo dove sperimenti quotidianamente e carnalmente uno sguardo di bene alla tua vita». E solo chi riceve sa dare: così, ho iniziato a guardare quella persona con l’urgenza che anche lei potesse sentirsi voluta bene. È stato uno sguardo gratuito perché da lei, inizialmente, non sono stata ripagata con la stessa moneta (sguardi di accusa, continui rimproveri...).
Eppure non potevo non guardarla con tenerezza. E dal secondo giorno anche il suo cuore, lentamente, ha iniziato a sciogliersi, accettando l’abbraccio che le veniva offerto. Allora è stato uno spettacolo vederla cambiare: era incuriosita da tutto, ha iniziato un rapporto con noi basato sulla fiducia e non sul sospetto, si è lasciata portare alla mostra su Giussani. Posso dire di essere stata testimone privilegiata di un miracolo: è stato un Altro che, attraverso il nostro modo di lavorare, di trattarci e di trattarla, è passato e le ha sciolto il cuore.
L’altra cosa che ho capito, lavorando al Meeting, è che questa è una grande occasione per essere educati alla serietà, all’obbedienza e all’attenzione.
Spesso usavo il mio essere volontaria come alibi per non farmi rimproverare troppo («Non può chiedermi questo, non può pretendere quest’altro: io sono volontaria...»). Invece, è esattamente il contrario: proprio perché non ho né un contratto né un vincolo formale, ho cominciato a usare la libertà fino in fondo, fino nei particolari più banali, scoprendo una convenienza umana che forse neanche un bel stipendio potrebbe regalarmi.
Arrivare puntuale al turno (se non in anticipo, per dare il cambio) è stato un obbligo e una lealtà a me e a questo posto, così come tenere pulito e in ordine.
Ho capito cosa vuol dire che la libertà è una responsabilità personale e che chi la usa può fino in fondo sperimentare una pienezza senza pari.
Un’ultima cosa: alla fine della settimana, quella responsabile ha chiesto di lavorare con noi anche l’anno prossimo... Be’, anch’io faccio la stessa richiesta!
Marta

È il primo anno che lavoravo in ristorazione. La settimana è andata bene: è stato interessante conoscere le ragazze che hanno lavorato con me, mi sono sentita accolta fin da subito. Una di loro, soprattutto, è stata come una mamma per me. Il lavoro alla Pausa Caffè non era molto impegnativo, ma la cosa che mi ha colpito di più è vedere come quelli che vengono a prendere anche solo un caffè sono un’occasione per me, per essere banalmente più gentile, anche se in quel momento vorrei starmene seduta a chiacchierare con qualcuno.
Tutto ciò mi ha fatto guardare un po’ più in là del mio ombelico, e mi ha fatto fare un passo in più.
Lucia

È il secondo anno di seguito che lavoro alla Pausa Caffè. Il Meeting scorso il lavoro si era rivelato molto difficile, a causa di lunghe ore di “nullafacenza” che mi rendevano incomprensibile l’utilità del tempo passato ad attendere che qualcuno venisse a prendere un caffè. La noia, così, e il senso di impotenza prevalevano.
Quest’anno, non so per quale grazia, alcune cose hanno cambiato la mia posizione di fronte a quello stesso tempo, passato per la maggior parte senza far niente di immediatamente utile. Ho visto, in particolare, una mostra e uno spettacolo, di fronte ai quali mi sono riaccorta con lucidità di quello che il Meeting porta con sé e che ridice a me prima di tutto.
Inoltre, avevo invitato alcune persone a me care: questo m’ha aiutato a percepire quale sia, concretamente, l’occasione che il Meeting ci offre per far vedere al mondo chi siamo e cosa amiamo.
Per questo, la stessa noia nel turno di lavoro non mi ha frustrato per la sua apparente inutilità (in fondo, se qualcuno viene a prendere un caffè bisogna pur essere pronti), ma è stata motivo di ricordarsi più spesso che io sono qui per rispondere a Uno che mi chiama, contribuendo così a costruire le cose grandi che a me per prima, qui al Meeting, hanno commosso.
Anna

Ho deciso di venire a lavorare al Meeting prendendo sul serio gli avvisi di una Scuola di comunità che ha segnato una conversione nel mio modo di lavorare durante la settimana. Mi sono detto: «Se questo luogo, che mi aiuta ad essere più me stesso di quanto non sappia fare io, mi propone di lavorare al Meeting, lo fa per aiutarmi a diventare ancora più me stesso».
Venire a lavorare ha assunto fin da subito la forma della chiamata che Gesù faceva a me attraverso il movimento, nella circostanza della Scuola di comunità. Poi ho cominciato il lavoro al Meeting, ed è stato subito evidente che né il fatto di essere con gli amici, né la buona volontà bastavano a giustificare una settimana di lavoro gratis. Il secondo giorno, infatti, la fatica si sentiva di più e cominciavano ad esserci delle incomprensioni tra noi. Dopo aver inizialmente maledetto la fatica che facevo, ho ringraziato di averla fatta: mi ha reso evidente che non riuscivo a giustificare da solo una settimana di lavoro gratuito. Così sono dovuto tornare alla forma con cui tutto è partito, una chiamata di Gesù, che in questa settimana voleva farmi fare dei passi di fede.
La consapevolezza di essere stato chiamato a lavorare lì da un Padre buono, che mi vuole bene e mi dà le circostanze affinché io possa crescere, ha portato un nuovo modo di pregare: partendo dal mio bisogno (la fatica che accusavo) e dal fatto di non essere in grado di rispondere da solo a quel bisogno (non c’era nessuno stipendio a giustificare la fatica), pregavo Gesù affinché mi conducesse a scoprire ciò per cui mi aveva chiamato lì. Questa preghiera non si esauriva con la fine dell’Ave Maria, ma continuava in un’attenzione ai particolari: dal modo di accogliere i clienti, alle condizioni del posto di lavoro, alle persone con cui avevo a che fare.
Ringrazio Gesù di aver reso evidente che è un Padre buono che mi dona le circostanze affinché mi converta a Lui, e che “offrire” quel che faccio sottintende la domanda a Lui che mi aiuti a cogliere il significato delle circostanze.
Antonio