Ferrera, Bilancia e Vittadini durante il dibattito.

Noi, il welfare e il Grande Inquisitore

Disservizi e vecchi diritti contro eccellenze e nuovi bisogni. Come uscirne? Alla Statale di Milano un incontro che fa piazza pulita di caricature polemiche e meccanicismi, rimettendo al centro l'individuo. Senza farsi fermare da chi non vuole rischiare
Pietro Bongiolatti

«Come uscire dalla crisi senza sacrificare nessuno?». È il sottotitolo dell’ultimo libro di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e di Lorenza Violini, docente di Diritto costituzionale; La sfida del cambiamento. Ed è stata la domanda al centro dell’incontro «Verso un welfare sussidiario», tenutosi ieri pomeriggio alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano. A interloquire con gli autori, due professori della facoltà che ha ospitato l’incontro: Alberto Martinelli e Maurizio Ferrera. Al tavolo anche Paola Bilancia, professoressa di Diritto costituzionale e moderatrice dell’incontro.

Proprio la professoressa Bilancia chiarisce subito perché occorre riflettere sul welfare sussidiario: «Possiamo ancora parlare di welfare state? Dalla sua invenzione a metà del Novecento la società è cambiata e questa crisi ne ha accelerato i processi di mutazione. Lo Stato ha spazi di spesa più ristretti. In questo il welfare sussidiario può essere d’aiuto». Il primo intervento è di Lorenza Violini, che spiega la tesi del libro: il primo punto da salvaguardare è l’origine del welfare: «L’assistenza alla persona è nata in maniera sussidiaria, perché la società civile ha cominciato a farsi carico delle esigenze dei più deboli, considerando tutti degni di vita e di benessere». Da qui, occorre ripensare il ruolo dello Stato, dei fruitori e dei privati convenzionati: «Elementi di competition possono essere utili ma senza esagerare, perché al centro dell’assistenza c’è il benessere dell’utente, non il guadagno del fornitore». Lo scopo di questo libro però non è quello di fornire una teoria compiuta sul welfare: «Vuole aprire il dialogo su un problema che va al cuore dello Stato e della cittadinanza», ha concluso Lorenza Violini: «È frutto di passione civile, non di tecnicismi».

Un invito al dialogo che Maurizio Ferrera accoglie con entusiasmo: «Leggendo questo libro mi sono confrontato con una prospettiva di sussidiarietà che tocca ambiti che non mi aspettavo. Può essere il modo con il quale affrontare disservizi statali che ho sempre interpretato come mancanza di liberale ragionevolezza, cui sono culturalmente più vicino». Ad esempio, per rinegoziare i diritti creditori in favore di quelli debitori, come le pensioni di anzianità, che spesso non rispondono a necessità reali ma sono diritti dovuti, cristallizzati nel tempo: «Sono nate quando si viveva in media 65 anni», spiega Ferrera: «Ora che la qualità della vita si è alzata, tolgono risorse a nuove prospettive di bisogno, che diventano diritti debitori. La sussidiarietà può aiutare anche in questo».

Ma non risparmia due critiche: «Quando si attacca l’idea liberale in realtà ci si accanisce su un fantoccio polemico caricaturizzato. Oltre a Smith e Hobbes, ci sono Locke, Kant, Mill e Waltz che conoscono il paradigma relazionale, sanno che i legami senza opzioni sono oppressivi, ma le opzioni senza i legami sono mere possibilità. E poi bisogna fare attenzione: sappiamo che lo Stato e il mercato non sono perfetti, ma non illudiamoci che la società lo sia». Due le conseguenze: «Il vero soggetto della sussidiarietà non può essere né la famiglia né il corpo intermedio, ma l’individuo. Che va messo nelle condizioni per esprimersi».

Quando la palla passa a Vittadini, il presidente della Fondazione per la Sussidiarietà non lascia cadere le provocazioni: «Sono d’accordo su entrambi i punti. Il nemico della sussidiarietà non è l’individuo ma il meccanicismo, credere che per risolvere i problemi basti un meccanismo. La mia critica va a quel pensiero del Settecento che è ancora vivo nella pratica. Inoltre i corpi intermedi, se agiscono in modo corporativo fanno male alla società, mentre devono avere come obiettivo il bene comune. Lo scopo di un corpo intermedio è quello di educare il desiderio del soggetto. A volte invece sembra che prevalga una concezione da Grande Inquisitore di Dostoevskij: datemi la sicurezza e non fatemi rischiare». Così però la società si avvizzisce e l’individuo non ha lo spazio di esprimersi, secondo Vittadini ciò di cui c’è più bisogno è che «si tenga vivo un background ideale, unito alla possibilità di agire».

Una preoccupazione cui dà seguito anche Alberto Martinelli: «In questo periodo di crisi c’è l’esigenza del rigore finanziario, ma non trascuriamo gli investimenti sociali. Danno fiato a quello di cui abbiamo parlato oggi. Altrimenti la crisi è come un virus che fa salti di specie: prima erano i mutui subprime, poi è diventata una crisi finanziaria, poi economica, poi è stata la volta del debito sovrano. Ora non facciamola diventare una crisi sociale perché non diamo il giusto peso al welfare sussidiario».