La cena di Santa Lucia a Padova.

Un bene che diventa opera

La cena di Santa Lucia è «un appuntamento cruciale della vita sociale cittadina». Politici, imprenditori, esponenti del mondo finanziario. Uniti per sostenere le iniziative di Avsi. E «per qualcosa di grande che riguarda il senso della vita»
Eugenio Andreatta

Cosa distingue un gesto di carità da un evento di beneficenza? Soprattutto quando parliamo di una cena di gala con centinaia di partecipanti tra politici, imprenditori, esponenti del mondo finanziario, ecclesiale, accademico, signore eleganti e ingioiellate… Il crinale potrebbe sembrare sottile. Lunedì 10 dicembre al Centro congressi Padova “A. Luciani” si è tenuta l’undicesima edizione della cena di Santa Lucia. Un successo, forse ancora di più delle precedenti edizioni. Millecento partecipanti, quasi un centinaio di aziende ed enti sostenitori, duecento volontari, una rassegna stampa che non finisce più (compresi Tg2 e CorrierEconomia), una stima di 150mila euro raccolti per sei progetti di sviluppo: i quattro delle Tende Avsi in Ecuador, Uganda, Siria ed Etiopia più il Caritas Baby Hospital che cura i bimbi di Betlemme e dintorni e la Casa del Buon samaritano, ospedale cileno a trecento chilometri da Santiago. Un evento che ormai a Padova è l’appuntamento natalizio per eccellenza. Con ospiti quali Luciano Violante, Giancarlo Galan, Flavio Tosi. Pier Luigi Bersani assente giustificato per crisi governativa imminente.

Che non si tratti solo di beneficenza lo spiega Graziano Debellini, fin dalle origini anima della manifestazione, ora presidente dell’associazione Santa Lucia. «Ci mette insieme qualcosa di grande e misterioso, che riguarda il senso della vita di ognuno». Lo si capisce da testimonianze come quella di suor Laura di Adwa in Etiopia. Sta facendo nascere un ospedale cercando aiuti in tutto il mondo. E nel frattempo fa il chirurgo, l’infermiera, soprattutto - migliaia di volte - l’ostetrica. O come quella dell’arcivescovo Demerew Souraphiel Berhaneyesus, primate cattolico dell’Etiopia, che con l’aiuto del governo sta costruendo un’università ad Addis Ababa perché il futuro del secondo Paese più popoloso dell’Africa si riassume in una sola parola: educazione. O quella di Margherita Coletta, vedova di uno dei carabinieri uccisi nel 2003 a Nasiriyah, un’amica di lunga data della Cena di santa Lucia. O di suor Irene dal Cile: «È Gesù che ci dà il privilegio di servire i nostri fratelli più fragili».

Qui il far del bene tende a diventare opera, qualcosa che poco per volta cambia la mentalità e resta nel tempo. Lo testimonia anche il sindaco della città, Flavio Zanonato, che dalle colonne dei giornali locali non ha dubbi: dopo dieci anni la Cena è «un appuntamento cruciale della vita sociale cittadina» in grado di «unire la comunità in cui viviamo e operiamo», un appuntamento trasversale che «mette insieme le forze del civismo cittadino». Lo prova la presenza in sala, tra il pubblico, di oltre sessanta componenti del comitato promotore, tra cui i presidenti delle associazioni di categoria e i rappresentanti delle istituzioni. Gente che non si limita a venire alla cena, ma che durante tutto l’anno aiuta i vari progetti, spesso in modo discreto. Magari spedendo in Palestina le attrezzature dell’Azienda ospedaliera.

“Costruendo un bene per tutti” è il tema. Debellini lo spiega in modo molto semplice: «Non abbiamo mai sostenuto progetti realizzati da noi. Sono stati gli incontri con i testimoni a chiarire la strada». Come con suor Lia, il cuore silenzioso delle Cucine economiche popolari che danno pasti caldi, vestiti, assistenza medica ai poveri della città. Incontri che indicano un metodo. «Noi abbiamo imparato a fare così», spiega Giorgio Vittadini, relatore principale della serata ad un pubblico silenzioso e attento. «Incontrare le persone ad una ad una. Il bisogno è un mare, ma una persona può sentire che vale solo se coinvolta in un rapporto personale». E l’educazione è il modo per potenziare la persona, per «non farne un nostro servo». Perché la beneficenza, alla fin fine, tratta l’altro come il marchese dei Promessi sposi. Umile sì - Vittadini cita Manzoni - ma non «un portento d’umiltà». «Ne aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari». Per questo, anche in un momento in cui lo Stato non mette più risorse nella cooperazione, tutto nasce da gente che prende l’iniziativa, che costruisce ponti con tutto il mondo senza aspettare la manna dall’alto: «La Cena di santa Lucia è l’esplosione di questo metodo», dice Vittadini. La folta delegazione etiope (con l’ambasciatore in Italia Mulugeta) e armena (con il premier del Karabakh Araik Harutyunyan) ascolta con particolare attenzione.

La prova del nove forse più inattesa giunge dalle cucine. Antipasto, primo, secondo e dessert firmati da quattro protagonisti assoluti: Massimiliano Alajmo, Giancarlo Perbellini, Piergiorgio Siviero e Luigi Biasetto. Un tripudio di stelle Michelin. Ma al Centro papa Luciani gli chef sono arrivati attraverso il carcere, per la curiosità - prima - e il coinvolgimento - poi – con i detenuti cuochi e pasticceri del Consorzio Giotto. Come racconta Nicola Boscoletto, hanno dato il meglio di sé con entusiasmo e passione con questi insoliti allievi. Perché non finisce tutto con una serata di gala. La beneficenza lascia il mondo così com’è, la carità fa risorgere la persona.