Sulla strada della libertà

Brani dall'intervento di don Julián Carrón all'Assemblea nazionale della Compagnia delle Opere. Fiera Milano Congressi, 20 novembre 2011 (da “Avvenire”)
Julián Carrón

È nei momenti di crisi che ciascuno di noi è messo alla prova. Ma ciascuno di noi che cosa è? La tentazione è sempre quella di concepirci a partire delle nostre capacità, delle nostre risorse, delle nostre competenze. Ma queste non dicono tutto il nostro io, ce ne rendiamo conto soprattutto quando vediamo che esse non bastano per affrontare le vere sfide. Ciascuno di noi è la sua autocoscienza. La questione non è se siamo o meno all’altezza, ma se la nostra impostazione della vita regge davanti alle sfide, piccole o grandi, che dobbiamo affrontare. Ed è nei momenti critici che emergono con forza le grandi questioni della vita.
La ragione ce la spiega Hannah Arendt: «Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce».

1. La libertà è dipendenza dal Mistero
La crisi ci costringe al riguardare in faccia le domande, proprio perché non sono più sufficienti le risposte solite, che sono esattamente quelle che ci hanno portato dentro la crisi. Anzi, aggrapparci a esse, ai preconcetti e agli schemi del passato, ci porta solo ad aggravare la crisi, fino alla catastrofe. Questo si vede benissimo davanti alla questione che giustamente avvertite come la più urgente per poter costruire: la libertà.
Per anni abbiamo concepito la libertà come assenza di legami in tutti gli ambiti, da quello personale a quello sociale. Pensavamo di potercela cavare da soli, senza vincoli, anzi, che questa fosse l’unica modalità di essere veramente liberi e autonomi: non dipendere da niente e da nessuno. Ma la crisi ha messo in evidenza quanto è fragile una tale concezione di libertà e fino a che punto è irrealistico pensare di essere liberi così. Lo abbiamo visto e lo vediamo quando siamo determinati dalle circostanze, dalla fluttuazione dei mercati o della finanza, quando sentiamo tutta la nostra impotenza di fronte a difficoltà di ogni genere che ci soffocano. [...]
Siamo costretti ad approfondire quello che pensavamo di sapere: da dove nasce quella libertà che ci permette di costruire? Per rispondere adeguatamente a questa domanda occorre capire che cosa rende libero l’uomo. Perché è evidente che se l’io è un puntino passeggero, che compare all’interno di una realtà concepita come cieco torrente del mondo e della storia, allora esso non avrà alcuna libertà. [...] Questo mostra che la lotta per la libertà è prima di tutto una questione culturale, perché riguarda un modo di concepirsi dell’uomo, come ammoniva profeticamente il beato Giovanni Paolo II tanti anni fa quando identificava la tragedia del nostro tempo nella «paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, […] di un soggiogamento “pacifico” degli individui, degli àmbiti di vita, di società intere e di nazioni, che per qualsiasi motivo possono riuscire scomodi per coloro i quali dispongono dei relativi mezzi e sono pronti a servirsene senza scrupolo» (Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 11).
«In un solo caso questo punto, che è l’uomo singolo, è libero da tutto il mondo, è libero, e tutto il mondo non può costringerlo, e l’universo intero non può costringerlo; in un solo caso questa immagine di uomo libero è spiegabile: se si suppone che quel punto non sia totalmente costituito dalla biologia di suo padre e di sua madre, ma possegga qualche cosa che non derivi dalla tradizione biologica dei suoi antecedenti meccanici, ma che sia diretto rapporto con l’infinito, diretto rapporto con l’origine di tutto il flusso del mondo, cioè Dio» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 124).
Ce lo ha ricordato Benedetto XVI nel suo discorso al Reichstag di Berlino: «Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana». [...]
Ma dire questo è realistico? Lo stesso Benedetto XVI ha accettato questa sfida, prendendo di petto la questione. Nella sua risposta a questa domanda possiamo identificare che cosa implica per la libertà l’assenza di Dio: «L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo, nell’hybris del potere, nel vuoto del cuore e nella brama di soddisfazione e di felicità, ‘perde’ sempre di più la vita» (Benedetto XVI, Celebrazione Ecumenica nella Chiesa del Convento degli Agostiniani, Erfurt, 23 settembre 2011). Qualcosa di simile accade quando si spegne il termosifone: il calore accumulato mantiene ancora calda la stanza per un po’ di tempo, nell’illusione che si possa risparmiare il costo dell’energia. Ma presto il freddo ci fa uscire dall’inganno. In un certo qual modo, possiamo dire la stessa cosa della libertà: abbiamo pensato che rompere il legame con Dio fosse una liberazione. Ben presto, però, tutti ci siamo ritrovati soltanto più indifesi, perché più soli, davanti alla hybris del potere.
Paradossalmente, la crisi può diventare l’occasione per porre un fondamento realmente saldo a una libertà che altrimenti risulta, appunto, un flatus vocis, una parola vuota. [...]



2. La libertà è appartenenza a un popolo

Ciò che è vero a livello ontologico e antropologico, lo è anche a livello storico-sociale. Infatti, dove trionfa l’individualismo, cioè l’assenza di legami, la persona si trova pericolosamente sguarnita di fronte alle pretese del potente di turno, sia egli economico, sociale o politico. Isolare gli uomini l’uno dall’altro è uno dei sistemi più efficaci per dominarli.
Qual è la difesa più autentica per custodire la libertà dell’uomo all’interno dello spazio e del tempo? Quella che ci indica la natura stessa dell’uomo: un legame, un’appartenenza. Più precisamente - come abbiamo scritto nel documento di CL «La crisi sfida per un cambiamento» - l’appartenenza a un popolo che custodisca quel legame col Mistero che fa libera la singola persona. Don Giussani ci offre una spettacolare descrizione di questo fenomeno: «La vita di un popolo è determinata da un ideale comune, da un valore per cui vale la pena esistere, faticare, soffrire e, se necessario, anche morire; da un comune ideale per cui valga la pena». [...] In secondo luogo, la vita di un popolo è determinata dalla identificazione degli strumenti e dei metodi adeguati a raggiungere l’ideale riconosciuto, affrontando i bisogni e le sfide che emergono via via nelle circostanze storiche. E, terzo, essa è determinata dalla fedeltà vicendevole in cui uno aiuta l’altro nel cammino verso la realizzazione di quell’ideale. Un popolo esiste laddove c’è la memoria di una storia comune che viene accettata come compito storico da realizzare. [...] Più è grave la situazione e più emerge il bisogno di sostenersi come coscienza, come aiuto reale, come compagnia, come rischio. [...]
Chi può correre il rischio di mettersi insieme con altri in una situazione come quella attuale? Solo chi, condividendo il senso della vita, l’ideale, può condividere anche tutto il resto. Ma proprio quanto più è acuta la crisi e quanto più c’è il rischio individualistico di vedere l’altro come avversario da battere, tanto più oggi è drammaticamente necessaria la potenza di un Altro che ci renda tutti consapevoli del nostro inesauribile bisogno: «Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. [...] Ora, l’esistenza di un popolo così, di una compagnia che opera così, è di aiuto e sostegno non solamente per chi vi partecipi direttamente, ma anche per chi la incontra nella propria vita: «La cosa più misteriosa è che nella riuscita di un popolo non può non essere implicata anche la prospettiva che il bene suo sia per il mondo, per tutti gli altri». [...] Sostenere questa iniziativa del singolo o degli associati è ciò che propriamente definisce la politica: «Politica vera [...] è quella che difende una novità di vita nel presente, capace di modificare anche l’assetto del potere. Così, la politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento, manipolazione di uno Stato e del suo potere, oppure favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale secondo il concetto tomistico di “bene comune”, ripreso vigorosamente dal grande e dimenticato Magistero di Leone XIII» (L. Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 170).
In questo tornante della storia possiamo più facilmente comprendere il contributo che una libertà così intesa può offrire al cammino di ciascuno, qualunque sia la posizione che occupa nella società.
Tutti possiamo fare la verifica di che cosa veramente ci libera e ci mette nelle condizioni ottimali per vivere le circostanze - anche quelle più avverse e contraddittorie - con una positività altrimenti impossibile. Da una esperienza di libertà autentica si sprigiona una capacità di costruttività che nessuna difficoltà riesce ad bloccare completamente, come tanti di voi ci testimoniano ogni giorno. È una operosità che ci sorprende quando la vediamo già attuata in qualcuno, al punto tale che il futuro cessa di essere pauroso e si carica di una promessa di bene che sostiene la speranza.
(da Avvenire, 4 dicembre 2011)