Don Giussani alle Vacanze estive di GS nel 1961 al Passo di Costalunga (Archivio Fraternità CL)

Giovani e ideale. Un cammino al destino

Alcuni brani di don Giussani che aiutano ad approfondire le parole di Davide Prosperi nell'articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 24 dicembre
Luigi Giussani

«L’ideale non è un discorso, ma l’avere di fianco a te una realtà umana»
(…) Quello che importa non sono i problemi - il problema di guadagnare tre miliardi, impegnando trecento milioni, o di guadagnare un rapporto stabile con la ragazza -, ma qualcosa di più grande. Questo qualcosa di più grande incomincia a delinearsi con la parola «destino». Quello che salvo del mio gioco coi soldi o quello che salvo nel mio arrancare dietro la ragazza è il mio destino (…).

«Quello che salvo del mio gesto è il mio destino». Ma qui c’è un’alternativa, che è stata detta nello stesso intervento. «Tu vuoi il tuo destino e allora lo diverrai: moralismo», il destino concepito come qualche cosa di voluto e di creato da te. Così, nel problema dei soldi come nel problema della ragazza, il destino, che è ciò che importa, te lo creerai tu. Ma questo è vieto e vuoto moralismo (si direbbe, in termini romaneschi, “cafoneria”). Invece, ecco l’alternativa: qualcosa d’altro ti ha dato la vita, il gusto dell’operatività, il gusto dell’affettività; qualcosa d’altro ti ha dato la vita, non sei tu a definire il destino, ma è dal destino che ti nasce questa possibilità di gioco d’azzardo in campo economico e questa possibilità di gioco d’azzardo in campo affettivo. Qualcosa d’altro t’ha dato la vita, perciò il destino coincide con l’ideale. L’ideale, ciò per cui ultimamente palpiti, ciò per cui ultimamente ti muovi, è legato al destino, anzi, è la stessa cosa: ideale e destino. La possibilità di carriera che ti è balenata davanti ti è stata data: l’ideale è il destino, e il palpito che ti ha suscitato il viso della ragazza che ti è passata davanti furtivamente in tranvai ti è stato dato: perciò l’ideale che ti è stato destato è destino.

(…) Ma la parola «ideale», che dunque raccorda il destino con il palpito del cuore, non è un discorso, un discorso mentale, come un’immaginazione prima che t’addormenti la sera, un discorso fatto di parole, magari sostenuto da citazioni poetiche; «non è un discorso, ma l’avere a fianco a te qualcosa di umano, una realtà umana». L’ideale non è un discorso, ma l’avere di fianco a te una realtà umana. Badate che è molto importante il nesso fra ideale e destino. L’ho accennato appena, perché non voglio esaurire io i pensieri che dovete conquistare voi. Dico semplicemente che ciò che desta il tuo gesto (affettività, interesse, curiosità) è destino, altrimenti non t’avrei neanche visto. Ma, in quanto ti desta un interesse, il destino s’aggancia al tuo cuore. Perciò la parola «ideale», torno a ripetere, è il destino in quanto aggancia il cuore. Se aggancia il cuore, non può essere un discorso, ma «l’avere a fianco qualcosa di umano», una persona, avete detto nell’assemblea, o, diciamolo con un’altra parola, una «presenza». (…) Ora, l’ideale e il destino non sono un discorso, ma qualcosa che sta a fianco, qualcosa di umano, che già c’è. Ebbene, «grazie a ciascuno di voi ne ho imparato il nome: Cristo».

(…) Il problema è quello del rapporto esistenziale tra te e questo Cristo o, che è lo stesso, che diventi rapporto esistenziale quello fra te e la realtà che Lui produce, cioè la comunità, la compagnia: rapporto esistenzialmente personale fra te e la compagnia. Ma è lo stesso: il problema del rapporto personale, esistenziale, con quel qualcosa di più grande, cioè con Cristo, è che il movente del fenomeno che abbiamo descritto deve scendere come fendente dentro il tuo cuore, dentro di te, dentro la tua autocoscienza, dentro il sentimento di te stesso, dentro la coscienza del tuo io, brandisca il braccino d’una ragazza o un mucchio di soldi guadagnati al lavoro.
Da L. Giussani, Qui e ora (1984-1985), BUR - L'Equipe, Milano 2009, pp. 196-216


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«Stiamo insieme per qualcosa di più grande di noi»
(…) Ideale ed utopia non sono la stessa cosa. L’utopia è una parola che rappresenta negli intellettuali quello che nei ragazzi è il sogno. L’utopia ha lo svantaggio di essere piena di presunzione, il sogno almeno ha in sé qualcosa della malinconia che - lo diceva Dostoevskij - è meglio di tante «soddisfazioni». Ma sogno ed utopia nascono dalla testa, dalla fantasia. Invece l’ideale è il centro della realtà. L’ideale è quella soddisfazione verso cui ti lancia il cuore, qualcosa di infinito che si realizza in ogni istante. Come una strada che ha una grande meta, e tu camminando, passo dopo passo, già la rendi presente. Così l’ideale cambia la vita di momento in momento. A sessant’anni può cambiarla in modo più suggestivo che a venti, perché l’ideale si fa più evidente, più potente (…). La parola Dio è uguale a Ideale. Scriveva Gratry, quel grande filosofo francese dell’Ottocento, che ogni vero ideale richiama Dio. L’ideale si distingue dal sogno perché nasce dalla natura, nasce nel cuore dell’uomo. Perciò non tradisce. Seguilo, non ti tradirà. Sogno e utopia ti portano via dalla vita.

(…) Per rimanere giovani bisogna rimanere fedeli a ciò per cui si è nati, al proprio cuore. Ma il potere ha fissato tutti i tabulati, tutte le tue esigenze e le parole che le richiamano hanno già una risposta nel vocabolario del potere. E tutto allora sembra in funzione di chi ha in mano il potere. Perciò mettiti insieme ad altri che vogliono rimanere fedeli al proprio cuore. Sii fedele al cuore e agli amici, e ti assicuro che vai fino al Polo. Ragazzi, dobbiamo ammettere che è una cosa senza paragone che il cristianesimo dica che Dio è diventato uomo, e permane in mezzo a questa compagnia di amici per far sì che la giovinezza duri per sempre.

(…) Per fortuna non si nasce soli e non si cammina soli verso il destino. Sulla montagna dove non sai il passaggio da fare accetta l’indicazione della guida, accetta l’altro. Vi chiedo: non siate così scettici da rinunciare ad essere insieme, e non siate così sordi ed ottusi da essere insieme per contenuti immediati. L’immediato o è un passo al destino o è la tomba. Tutto diventa soffocante come le quattro pareti, anche quando sembra grande, e Leopardi chiama «stanza» il mondo. Ma l’uomo è un angolo aperto all’infinito. Perciò stiamo insieme per qualcosa di più grande di noi. Ci sia sempre questa lancia sulle costole, che ci spinge: l’amore all’ideale, al destino.
Da L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, Rizzoli, Milano 2018, pp.19-25


«Questo destino ha un nome nella storia: si chiama Gesù Cristo»
(…) Io amerei, piuttosto, chiarire e mettere in opposizione due termini: sogno e ideale. Il cuore è fatto per l’ideale. Il sogno svuota la testa, dopo averla riempita di nubi. L’ideale è dettato dalla natura ed emerge col passare del tempo, se si persegue l’indicazione che la natura porta con sé. L’ideale è innanzitutto una indicazione della natura: per esempio, l’esigenza dell’amore o l’esigenza della giustizia. Tu non sbagliavi a fare quello che facevi per passione della giustizia; sbagliavi nell’identificare, come risposta alla giustizia, quello che immaginavi tu. Invece la giustizia implica rapporti che sono stabiliti dalla natura. Non ci siamo fatti noi, non ci facciamo noi; le esigenze che urgono dentro la nostra personalità non ce le siamo costruite noi. Tu ti potrai costruire una certa immagine di giustizia. Questa immagine, quello che tu hai chiamato sogno, se non tiene conto delle indicazioni della natura non si realizzerà e tu sarai deluso, cioè giocato. Delusione deriva da una parola latina che vuol dire «essere giocati»; siamo noi che possiamo giocare noi stessi. Illusione è un’altra forma della stessa parola; siamo noi che ci possiamo illudere e deludere, «giocando» quello che ci pare e piace invece che obbedire.

(…) Seguire il sogno vuol dire, nel tempo, incenerire tutto quello che ci viene tra le mani. Sembra bello, appena lo stringiamo, e poi si incenerisce (…). L’ideale invece indica una direzione che non fissiamo noi; ce la fissa la natura. Perseguendo questa direzione, anche con fatica, anche andando contro le onde - come ci ha ricordato il «volantone» di Pasqua -, l’ideale, col passare del tempo, si realizza. Si realizza in modo diverso da come uno se lo immagina; sempre diverso, sempre più vero. A cinquant’anni, guardando indietro, uno dice: «Per fortuna che ho fatto quell’incontro! Adesso capisco le cose con una verità che gli altri non hanno».

(…) Pretendere la felicità nella vita è un sogno. Vivere la vita camminando verso la felicità è un ideale. Perciò tu, essendo ritornato sul cammino, ti sei messo in condizione di godere le cose, di capirle, di usarle con una purità e con un gusto che il tuo compagno non sa neanche lontanamente immaginare. Infatti, il tuo amico è costretto a chiamare felicità una istintività che si brucia al momento. E deve continuamente moltiplicarla perché continuamente si brucia. Invece tu non hai l’impressione che le cose si brucino. Un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro - l’uno piovoso e l’altro pieno di sole - tu capisci che costruisci, costruisci il cammino al tuo destino.

(…) Tale destino è Mistero, non può essere descritto e immaginato. È fissato dallo stesso Mistero che ci dà la vita. Vivere la vita come vocazione significa tendere al Mistero attraverso le circostanze in cui il Signore ci fa passare, rispondendo ad esse. Tu hai trovato questa compagna; segui ciò a cui questo rapporto buono ti invita; capirai sempre di più. Dovrai realizzare la tua sofferenza, perché vorrai magari qualcosa che non ti sarà dato, che non potrai afferrare in quel momento. Ma se tu obbedirai all’invito che questo rapporto buono ti offre, ti troverai più te stesso, più uomo di prima. Prima volevi meno bene, adesso, proprio attraverso il sacrificio, vuoi bene di più. La vocazione è andare al destino abbracciando tutte le circostanze attraverso cui il destino ci fa passare.

Ma c’è una cosa fondamentale: il destino da cui nasco e a cui sono finalizzato, il mio principio e la mia fine è diventato Uno fra noi; sedeva sui banchi di scuola, si riuniva insieme al popolo del suo paese e della città di Gerusalemme. Questo destino ha un nome nella storia: si chiama Gesù Cristo. La vocazione, perciò, è abbracciare tutte le circostanze per obbedire, aderire, realizzare quello che Cristo vuole da te. Cristo è Colui senza del quale l’uomo e la realtà tutta intera scompaiono e rimane l’urto breve dell’istante - piacere o dolore - che il tempo incenerisce. È solo con Cristo che, seguendo tutte le circostanze momento dopo momento - siano esse caratterizzate da errore e debolezza oppure da forza e dedizione - noi costruiamo.

(…) Il destino, cioè l’ideale, è la cosa più presente che ci sia. Infatti, quello che sei in questo momento ha consistenza per l’ideale, ha consistenza per il destino; altrimenti svanirebbe, il tempo lo incenerirebbe. E quello che in te cresce, cresce per il destino, anche se tu non ci pensi. La tragedia della vita è dimenticare il destino, il rapporto con Cristo. C’è qualche cosa che ci aiuta a ricordare Te, o Cristo, che sei il nostro destino e ad affrontare la tragedia della nostra ribellione? È la nostra compagnia; essa ci impedisce la dimenticanza e ci recupera dopo ogni ribellione. La tragedia della vita non è che si possano commettere errori; il danno non sono gli errori, ma la menzogna. Menzogna è non riconoscere il destino com’è nell’esistenza storica che esso ha assunto diventando un uomo. La nostra compagnia è nata da quell’uomo e sta insieme per quell’uomo. Su un diario molto diffuso, di cui ho letto con orrore alcune pagine, si parla di «ricercare una verità il più possibile vicina al vero». Ma come? La verità o c’è o non c’è. Una «verità più vicina al vero» è una menzogna. «Io sono la via, la verità e la vita»: Cristo lo ha detto sapendo che per questo sarebbe stato ucciso.

(…) La tua felicità è che la vita ha un suo destino ultimo ed è un cammino. La compagnia è l’insieme delle persone con cui tu cammini verso il destino, verso la meta. Se tu abbandoni questa compagnia, dimentichi il tuo destino, perché in te si sfoca l’immagine e il desiderio di esso. Senza compagnia, Cristo non sarebbe più conosciuto da nessuno: Lui, per farsi conoscere da te e da me, ha creato una compagnia; prima dodici persone, poi settanta, poi centinaia, poi migliaia e centinaia di migliaia. E ci ha raggiunti, ci raggiunge ora. Qui, tra noi, la presenza più imponente e grande, che nessuno può stracciare o diminuire - noi tutti potremmo morire, ma questa presenza è inesorabilmente imponente - è Cristo.

(…) Con Cristo noi non perdiamo più niente. Anche gli errori non si perdono; diventano un bene, diventano un dolore, diventano un amore. Per questo la parola che abbraccia tutto quello che Dio è per l’uomo, la parola più grande da usare nella comunità, il segno più incisivo della verità della compagnia è la parola perdono o misericordia. Perfino il male diventa bene, perfino la morte diventa vita, diventa il passaggio alla vita senza fine.

(…) Dobbiamo portare ovunque questa nuova umanità per cui l’uomo ama l’uomo. È menzogna amare se non si ama il destino dell’altro. È menzogna dire alla tua ragazza: «Ti voglio bene», se non desideri che si affermi il destino della tua ragazza. Ma se affermi il destino della tua ragazza, assumi subito verso di lei un atteggiamento di discrezione, di devozione, di ammirazione, di - lasciatemi dire la parola - purità. Applicate questo anche allo studio, al rapporto con i genitori e con tutti i vostri compagni: è un’umanità nuova, più pura, è un’umanità più umana.
Da L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, Rizzoli, Milano 2018, pp. 57-70