Benedetta Vimercati, professore di Diritto costituzionale all'Università Statale di Milano

La cura della vita. La zona grigia

La costituzionalista Benedetta Vimercati e l’intricata normativa italiana sul fine vita: «Non esiste un diritto a morire. La legge deve creare le condizioni in cui un malato possa non sentirsi un peso». Da "Tracce" di aprile
Stefano Filippi

Una “zona grigia”: è la regolamentazione italiana sul fine vita secondo Benedetta Vimercati, professore associato di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano. Un groviglio in cui si intrecciano sentenze dei giudici, interventi del Parlamento, pressioni dei gruppi pro-eutanasia, tentativi di referendum e fughe in avanti delle Regioni.

Da dove si parte per districarsi nella complessità della normativa italiana?
La prima chiarezza va fatta a livello terminologico tra eutanasia attiva e passiva: quest’ultima è il diritto del paziente di rinunciare o chiedere l’interruzione dei trattamenti sanitari vitali, mentre l’eutanasia attiva prevede che il medico somministri un farmaco che causa la morte. Sono due situazioni diverse: nel primo caso, la morte è causata dall’evoluzione della malattia, nell’altro, dal farmaco somministrato. Diverso ancora è il suicidio assistito che implica la scelta di terminare la propria esistenza ma attraverso l’autosomministrazione del farmaco letale.

Cosa è disciplinato dalla legislazione italiana?
La legge 219/2017, che regola il consenso informato e le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat), si occupa della rinuncia e del rifiuto di trattamenti sanitari vitali (eutanasia passiva) e non vitali, specificando come nella nozione di trattamento sanitario vadano ricompresi nutrizione e idratazione artificiali.

Idratazione e alimentazione artificiali evocano la vicenda di Eluana Englaro.
La legge è stata anche conseguenza del caso Englaro, in cui uno dei profili più dibattuti è stata la scelta di includere nutrizione e idratazione artificiali tra i trattamenti di cui chiedere l’interruzione. La 219 ruota tutta attorno al consenso informato del paziente riconosciuto come un diritto che può essere manifestato per qualsiasi trattamento sanitario o direttamente dall’interessato o attraverso le Dat, una sorta di testamento biologico lasciato in previsione di un’eventuale futura incapacità. In entrambi i casi, il medico deve attenersi alla volontà del paziente pur con alcune eccezioni: quando il paziente richieda un trattamento contrario alla legge o alle buone pratiche cliniche oppure se le Dat – prive di scadenza – non corrispondano alla condizione clinica del paziente o siano emerse terapie che possano offrire possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.

Su eutanasia attiva e suicidio medicalmente assistito non ci sono norme.
Leggi no: ci sono però due importanti decisioni della Corte Costituzionale sul suicidio assistito. Sull’eutanasia attiva la questione non è ancora arrivata alla Consulta, ma non escludo che ciò possa avvenire in futuro attraverso la cosiddetta strategic litigation: si prende un caso concreto, lo si porta all’attenzione delle autorità giurisdizionali e, attraverso queste, alla Corte Costituzionale per sollecitare un suo intervento.

Come è successo per il suicidio assistito…
Esattamente. Dall’autodenuncia di Marco Cappato si è giunti alla Consulta che, dopo aver sollecitato invano il Parlamento, ha dichiarato non punibile penalmente l’assistenza al suicidio in presenza di tutte queste quattro condizioni: che il paziente sia affetto da una patologia irreversibile, che tale patologia sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili, che egli sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e che resti pienamente capace di assumere decisioni libere e consapevoli. In questi casi, per la Corte è incostituzionale limitare la «libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze».

Perché alcune Regioni stanno intervenendo?
Per dare attuazione alla sentenza della Corte. Il problema è il presupposto che muove questi interventi. Dicendo che il medico che assiste il suicidio è esente da responsabilità penale, la Corte ha affermato che tale assistenza deve essere prestata nell’ambito di un processo medicalizzato. È un punto delicato. La Corte, indossando i panni del legislatore, ha delineato alcune tappe di questo processo che coinvolge il Servizio sanitario nazionale e i Comitati etici, chiamati a rilasciare un parere sulle richieste di suicidio assistito. Questa procedimentalizzazione ha generato inevitabilmente confusione sul portato della decisione della Corte, anche se gli stessi giudici costituzionali hanno dichiarato di essersi limitati a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio. Il che non comporta automaticamente l’affermazione di un diritto a morire tramite prestazione del Servizio sanitario nazionale. Pretendere questo diritto significa stravolgere il pronunciamento della Corte.

Ma chiamare in causa il Servizio sanitario nazionale significa coinvolgere le Regioni. Hanno competenze?
Alcune Regioni hanno iniziato a muoversi a fronte di proposte di legge di iniziativa popolare, predisposte sulla base di un canovaccio redatto dall’Associazione Coscioni. Si tratta di proposte che arrivano a individuare un diritto all’erogazione della prestazione: non solo quindi la presa in carico della richiesta, ma anche la fornitura del farmaco, del macchinario e dell’assistenza medica, interferendo in competenze che sono attribuite al legislatore statale o che almeno necessiterebbero di un suo intervento per delineare alcuni principi fondamentali. Senza contare come gli interventi regionali possano comportare una disciplina differenziata sul territorio nazionale di beni estremamente fondamentali.

L’Emilia Romagna ha aggirato la situazione.
Qui si è compiuto un passo ulteriore anticipando il contenuto della possibile legge con atto amministrativo. Mentre il Consiglio regionale iniziava a discutere la proposta di legge, la Giunta è intervenuta dapprima con una delibera che istituisce il Comitato per l’etica nella clinica, incaricandolo di valutare le richieste di suicidio assistito, e qualche giorno dopo con un atto del direttore generale dell’area salute che reca la disciplina della procedura.

L’intervento del Parlamento con una legge in materia è auspicabile?
È un grave dilemma per me. Da una parte direi di sì, almeno per fare chiarezza su alcuni aspetti come le condizioni poste dalla Corte costituzionale, alcune già messe in dubbio e oggetto di una prossima pronuncia della stessa Corte. Potrebbe inoltre essere occasione per chiarire che non si ragiona di un diritto di prestazione. Qualche punto fermo meriterebbe di essere messo, considerando anche l’attivismo giudiziale che si è scatenato dopo le pronunce della Corte con giudici che sono arrivati a configurare un vero e proprio diritto all’assistenza al suicidio. Al contempo, il diritto su questi temi resta un’arma spuntata. Una nuova legge potrebbe anch’essa essere portata davanti alla Corte e non è detto che i paletti fissati reggano per sempre, come dimostrano le esperienze straniere.

Che cosa succede all’estero?
Si inizia ponendo una serie di condizioni e, man mano, le si sposta sempre più in là. È il principio dello slippery slope, il pendio scivoloso, come dimostrano la legislazione olandese, belga e canadese. In Olanda erano stati posti vincoli restrittivi nel 2002, ma già nel 2005 il Protocollo di Groningen ha aperto all’eutanasia infantile e pediatrica poi recepita dalla legislazione. E da poco è tornato in discussione il riconoscimento agli over 75 dell’eutanasia per cosiddetta “vita compiuta”, in assenza di una patologia. In Canada questo processo è stato ancora più rapido. Dal 2016, con l’introduzione dell’assistenza medica alla morte confinata a patologie terminali, si è arrivati nel 2021 a eliminare il requisito della terminalità e nel 2023 a estendere tale “assistenza” (al momento inattuata) alle persone con patologie mentali, cosa comunque già sdoganata in Belgio.

In questo contesto si continua a parlare poco delle cure palliative.
Anche su questo c’è confusione. Molti le confondono con forme di eutanasia, mentre nulla hanno a che fare con l’anticipazione della morte. Le cure palliative sono interventi finalizzati a migliorare la qualità della vita, alleviando le sofferenze di coloro che hanno una malattia ad andamento cronico, dall’evoluzione inarrestabile e con prognosi infausta. Nel 2010 il nostro ordinamento ha adottato una legge volta a garantire il diritto di accesso alle cure palliative, cristallizzandole come prestazione sanitaria rientrante nei livelli essenziali di assistenza. Ciononostante, il processo di implementazione non può dirsi compiuto.

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Magari le Regioni potrebbero intervenire in questo campo…
Assolutamente sì. Non dimentichiamo che la stessa Consulta, ai quattro requisiti già detti, ha anteposto una sorta di precondizione: il paziente ha diritto alle cure palliative e di essere informato della loro esistenza. Altrimenti, avremmo un effetto paradossale: non punire l’aiuto al suicidio senza prima avere assicurato il diritto alle cure palliative. Nell’affrontare il fine vita, la prima attività che lo Stato dovrebbe fare è garantire gli strumenti per accompagnare le situazioni di sofferenza del malato. Pensiamo alle cure palliative domiciliari: sono tra gli aiuti più preziosi. È un tipo di cura che guarda non solo la patologia ma l’intera persona, anche nella sua trama relazionale. Anche in questo è interessante l’esperienza straniera.

In che senso?
Per esempio, nei report delle commissioni olandesi che valutano a posteriori la conformità di queste pratiche alle norme, sono riportate le motivazioni che spingono i pazienti a chiedere eutanasia o suicidio. Tra le motivazioni spesso ricorre il sentirsi privati della propria indipendenza e l’essere un peso per i propri cari. Questo deve fare riflettere perché esistono strumenti per accompagnare la persona, persino in situazioni di fragilità estrema. È un tema umano che il diritto non può risolvere. Aiutare però a creare le condizioni in cui un malato possa non sentirsi un peso, il diritto lo può fare. Deve solo decidere se lo vuol fare e quanto vuole investire.