Il cardinale Zuppi a Rimini (Archivio Meeting)

Zuppi: «Costruttori di legami»

Il Presidente Cei e la missione per cercare “spazi di dialogo” tra Ucraina e Russia, che in questi giorni tocca anche la Cina: «Dove c’è la guerra tutto è perduto, l’incontro genera il nuovo» (da "Tracce" di settembre)
Davide Perillo

«I profeti non chiudono gli occhi per immaginare quello che non esiste» ma «ci aiutano a vedere e cercare oggi, quando ancora non c’è, il nostro futuro». Lo ha detto all’inizio dell’omelia della Messa inaugurale. Ed era chiaro che in mente aveva anche papa Francesco e la sua «profezia per la pace» in un momento in cui parlare di amicizia suona strano, perché infuriano guerre e «l’aria è inquinata da un’epidemia di inimicizia». Matteo Zuppi, cardinale, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, quell’aria inquinata la conosce da vicino: il Papa gli ha affidato il compito di cercare spazi di dialogo tra Ucraina e Russia. E lui sta girando il mondo per provarci: Kiev, Mosca, Washington, tra un po’ Pechino. In mezzo, il Meeting di Rimini. Aperto con quella omelia e proseguito con un incontro sull’enciclica Fratelli tutti dove il Cardinale ha parlato anche della sua missione. Senza entrare nel merito dei colloqui e nei dettagli geopolitici, ma spiegando che cercare di arrivare a «una pace giusta e sicura» attraverso il dialogo «non è un’ingenuità».

Perché, Eminenza? A prima vista, il dialogo ora sembra irrealistico…
Ripartiamo sempre dalla Fratelli tutti, che ha delle pagine chiarissime sul coinvolgimento di tutti nell’essere operatori di pace: nel combattere contro l’odio, il rancore, il pregiudizio, l’esclusione… Se vuoi la pace, devi prepararla così. Da artigiani, come dice il Papa. Poi c’è, indubbiamente, la necessità che questo diventi cultura, ovvero una visione il più possibile condivisa. E c’è un aspetto, per così dire, di architettura: gli artigiani di pace hanno bisogno anche di un’architettura di pace. Vuol dire dotarsi degli strumenti che possono risolvere i conflitti non con le armi, ma con il diritto, la giustizia, il multilateralismo. Anche con una sovranità sovranazionale che garantisca la convivenza tra le nazioni. Oggi gli organismi nati dopo la Seconda Guerra mondiale sono in evidente difficoltà. È ancora più necessario che gli artigiani di pace trovino anche degli architetti, capaci di tradurre questo lavoro in meccanismi, regole, rapporti tra i Paesi. Anche perché in questa architettura generale, poi, ci sono gli incendi.

Come l’Ucraina…
Certo, ma non solo. Oggi ce ne sono tanti, e il problema è come spegnerli. Dovremmo trarne lezione, capire come affrontarli. Su questo abbiamo fatto molto poco.

Il cardinale Zuppi con Ahmed bin Rakkad Al Ameri, presidente della Sharjah Book Authority a Rimini (Archivio Meeting)

A Rimini, lei ha detto che il punto di partenza della Chiesa non è politico, ma è «lo struggimento per la persona». A qualcuno può sembrare una cosa sentimentale. Perché, invece, è la via più realistica?
Perché altrimenti c’è soltanto una logica di convenienze e di calcolo. Mentre noi dobbiamo credere che la storia possa cambiare. Bisogna conservare sempre quello struggimento e tradurlo in umanizzazione, in contatti, in spazi di dialogo. In modalità che aiutino i protagonisti a vedere che possono ritrovare anch’essi un’armonia e spingere nella direzione auspicata, cioè la fine del conflitto.

Lei insiste molto sul fatto che «la nostra non è una mediazione, ma anzitutto una dimostrazione di vicinanza» ai popoli, alla gente…
Certo. Poi è chiaro che se servisse, se fosse necessario e possibile, si arriverebbe anche a quello. Oggi, però, non è possibile: le autorità in Ucraina dicono: «A noi non serve una mediazione». Anzi, la temono, perché hanno paura che significhi ratificare lo status quo e l’invasione russa di una parte del loro territorio. Come dargli torto? C’è un diritto. Come è un diritto la legittima difesa, ci mancherebbe. Però accanto alla legittima difesa, in concerto con la comunità internazionale, dobbiamo anche pensare a trovare una soluzione che non sia soltanto quella militare.

Veniamo alla pace «giusta e sicura». Lei ha ripetuto anche al Meeting che il dialogo non è cedere alla logica del più forte: c’è un aggredito e un aggressore, ci sono ragioni e diritti di cui tenere conto. Anche questo mi sembra un tratto di realismo tipico della Chiesa. Ma cosa permette di conservare questo orizzonte largo, di tenere conto di tutte le ragioni in campo, ma senza restarne ingabbiati?
È proprio della Chiesa perché non ha altro interesse che la pace. Se vogliamo farne una lettura laica, la Chiesa è sovranazionale, ma allo stesso tempo sa interpretare profondamente le attese delle nazioni. È per questo che può fare molto. Proprio perché ha i due registri: quello dell’identità e dell’appartenenza, ma anche quello di una visione più larga. Quindi fa sue le attese di giustizia e di sicurezza, ma allo stesso tempo ha uno sguardo universale che può aiutare le parti a fidarsi. Perché la pace sia giusta e sicura ci devono essere tanti che rassicurano le parti in causa. C’è un lavoro di raccordo anche tra i Paesi che possono aiutare a garantire una pace giusta e sicura. E in questo la Chiesa ha un ruolo importante.

Accanto al lavorio delle diplomazie, lei si sta adoperando per aprire corridoi umanitari e per far rientrare i bambini rapiti. Perché per arrivare alla pace sono decisivi i piccoli passi, i gesti concreti?
Perché nella guerra c’è anche un accumulo di ferite, di tradimenti, di divisioni. Cominciare a sanare queste ferite non solo sottrae spazio al conflitto, ma indica un metodo. Mostra che un’altra logica è possibile, che insieme si possono trovare delle soluzioni che riducono le ragioni di conflitto. È decisivo.

Lei insiste molto sul «non abituarsi alla logica della guerra». Che cosa permette a lei di non abituarsi?
La sofferenza. Il dolore che vedo. È enorme.

Si torna allo struggimento per l’uomo…
Si torna alla Chiesa madre che si dispera, perché se siamo «fratelli tutti» non solo tutte le guerre sono fratricide, ma ogni guerra è un pezzo di guerra mondiale. Ci coinvolge comunque. Questa consapevolezza dell’appartenenza a una famiglia umana deve crescere molto. Ecco perché bisogna dare spazio a questo struggimento. Poi, a ben vedere, ci sono anche tante altre ragioni comuni, di semplice convenienza.

Per esempio?
Le guerre, oltre ai morti e alla devastazione, portano un inquinamento di cui paghiamo il conto tutti. Un inquinamento generale, non solo ambientale. In un mondo così piccolo non è pensabile che il conflitto tocchi soltanto chi è coinvolto direttamente. Io uso spesso l’analogia con la pandemia, perché fa capire molte cose. Arriva la variante sudafricana e uno può pensare: «Vabbè, sta in Sudafrica: che mi importa?». E invece il virus ci ha impiegato pochissimi giorni a diventare pandemia. Ecco, l’inquinamento della guerra vuol dire che ci saranno più profughi, più gente che ha fame… Anche per questo dobbiamo trovare modalità di relazione e di intervento più efficaci. Bisogna ricreare un concerto tra le nazioni, un’armonia tra i Paesi che sappia superare le vecchie contrapposizioni e trovare ciò che unisce. La famosa “concertazione”, alla fine, è quello. È come per il Covid, appunto: se ne esce solo assieme.

Il Papa reclama la necessità di una «pace creativa». Da dove viene fuori la creatività nel cercare soluzioni?
Dal non accontentarsi. Dal cercare tutte le connessioni, gli spazi, le possibilità di trovare varchi. Dal credere che l’incontro genera sempre qualcosa di nuovo, ed è in quell’inizio che c’è la creatività. Significa non pensare «faccio le cose perché già sono sicuro che vadano in un certo modo», ma mettere in moto esperienze che possano generare qualcosa di positivo.

Che cosa l’ha colpita di più di quello che ha visto in questi viaggi?
La forza della distruzione. Davvero dove c’è la guerra, tutto è perduto. Viene messa in discussione l’umanità elementare. E mi colpisce come questo provochi contrapposizioni apparentemente insanabili. Ma dobbiamo sempre credere che possiamo imparare a vivere insieme.

Lei che cosa sta imparando, invece?
Che esiste tantissima solidarietà. Mi colpisce vedere quante persone pregano, quanta fiducia, quanta attesa di pace c’è. E per certi versi, anche quanta consapevolezza, che speriamo possa crescere... Ma sto imparando pure quanto può diventare profondo l’odio. Quanto l’inquinamento della guerra può rendere la vita un deserto e il cuore stesso un deserto.

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In tutto questo, che compito ha ognuno di noi? Cosa possiamo fare per aiutare la «profezia per la pace»?
Anzitutto, combattere l’ignoranza, la divisione, i rancori... Sempre e dovunque. Non dobbiamo mai illuderci che siano inerti o, alla fine, gestibili: c’è una generatività anche del male. Il bene è sempre generativo, ma pure il male riesce a coinvolgere in una trasmissione dell’odio. E quindi con intelligenza, con semplicità e astuzia, con la libertà di non avere altri interessi – con gratuità, potremmo dire –, bisogna combatterlo, ed è qualcosa che possiamo fare tutti quanti. Poi, dobbiamo approfondire la consapevolezza di appartenere a tutta la famiglia umana. E continuare a costruire legami: legami di attenzione, di solidarietà, di conoscenza e di lavoro comuni. Giorno per giorno, ognuno là dove è e nella vita quotidiana.

Il 7 settembre a Milano, CL e altri movimenti hanno organizzato il momento di preghiera: "Dona nobis pacem". Che peso hanno momenti pubblici come questo?
Sono molto importanti. Allargano la consapevolezza, dimostrano che non ci si accontenta. È soltanto facendo tutti qualcosa che si spinge perché accanto agli artigiani ci siano anche degli architetti di pace. Iniziative come questa aiutano a ricreare un humus di convivenza, un pensarsi insieme. Siamo sulla stessa barca. Le soluzioni dobbiamo cercarle tutti insieme.