Il cardinale Pietro Parolin (Catholic Press Photo)

Parolin. Ciò che unisce

La diplomazia vaticana alla prova di una “terza guerra mondiale a pezzi”. Il compito dei cristiani e la crisi radicale della fiducia. Su "Tracce" di Dicembre, un dialogo con il Cardinale Segretario di Stato della Santa Sede
Stefano Filippi

Il conflitto tra Hamas e Israele ha aggiunto un tragico tassello alla “terza guerra mondiale a pezzi” che papa Francesco denuncia da anni. La violenza armata dilaga e si è sempre più incapaci di riconoscere il bene che è l’altro. Cosa permette di uscire dalla spirale di violenza che travolge? E qual è il compito dei cristiani? Risponde il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, impegnato – con tutta la Chiesa – a ricucire le tante ferite che lacerano il mondo.

I teatri di guerra oggi sono numerosi e in molti di essi sembra che, per l’attività diplomatica, il massimo obiettivo possibile sia un rallentamento delle ostilità più che una vera strada di riconciliazione. Quale pace sta costruendo la Chiesa, fino all’azione della Segreteria di Stato vaticana?
La diplomazia è lo strumento di cui si è dotata la comunità internazionale per la ricerca di una soluzione pacifica dei conflitti, attraverso il dialogo e il negoziato fra le parti coinvolte. Certo, come ogni opera umana, essa ha i suoi limiti e a volte, purtroppo, non riesce nel suo intento. Ma direi che già un rallentamento e, ancor di più, la cessazione delle ostilità è un risultato positivo, da non sottovalutare. Si tratta di un primo passo, necessario ma non sufficiente, a cui deve far seguito l’avvio di un percorso di riconciliazione inteso a costruire una pace giusta e duratura. La Chiesa, che l’ha adottata molto presto come uno dei mezzi della sua missione nel mondo, continua ad avere fiducia nella diplomazia. Che senso avrebbe altrimenti l’incontro con i responsabili politici, capi di Stato e di Governo e altre autorità, dopo l’udienza con il Santo Padre, che occupa molto spazio nell’attività della Segreteria di Stato? Che scopo hanno i viaggi nelle varie capitali, la partecipazione negli organismi internazionali?

Che cosa chiedete ai leader quando li incontrate?
A quanti incontriamo non facciamo altro che ricordare, adattandoli alle situazioni locali, i principi della Dottrina sociale della Chiesa sulla pace, che attingono abbondantemente al magistero conciliare e pontificio. Penso, ad esempio, ai numeri 77 e seguenti della Gaudium et spes, il documento del Concilio ecumenico Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo («La pace non è semplice assenza della guerra…»), all’enciclica Pacem in terris di san Giovanni XXIII, che fonda l’edificio della pace sui quattro pilastri della verità, della giustizia, della libertà e dell’amore, alla Populorum progressio di san Paolo VI e al ricco insegnamento di papa Francesco, riassunto nella Fratelli tutti. Punti sui quali insistiamo molto, al seguito dell’attuale Pontefice, sono il disarmo, il superamento delle ingiustizie e delle disuguaglianze, il perdono e la fraternità. È la “potenza debole” della parola! Ma crediamo che è necessario seminare, per raccogliere quando e come il Signore vorrà, e non perdere mai la speranza. Non manca mai, nei citati incontri politici, l’offerta della nostra disponibilità, secondo la natura della Santa Sede e nei limiti delle sue possibilità, di contribuire attivamente, con i mezzi della diplomazia, ad attivare percorsi concreti di riconciliazione e di pace.

Gaza, 8 novembre 2023. Palestinesi in fuga dalla Striscia (Foto Hatem Moussa/AP/LaPresse)

Papa Francesco ripete che «la guerra è sempre una sconfitta», quindi non ci sono “guerre giuste”, nemmeno quando si è attaccati? 
Ogni guerra è sempre una sconfitta, poiché tutte seminano morte e distruzione, alimentando sentimenti di rivincita e di vendetta. Non vi sono dunque guerre giuste e guerre sbagliate. Il giudizio negativo sulla guerra non preclude, tuttavia, il diritto alla legittima difesa della parte aggredita in un conflitto. D’altronde il Catechismo della Chiesa cattolica ricorda che «la difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere» e prevede che «i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (CCC 2265). Tuttavia, bisogna tenere presente che il diritto alla legittima difesa deve essere teso anzitutto a salvaguardare la vita di chi ha subìto l’aggressione e deve sempre essere proporzionata all’offesa ricevuta.

L’invito incessante della Chiesa è a non smettere di pregare chiedendo a Dio che tocchi il cuore e la mente dei combattenti e dei loro capi. C’è stato chi ha denunciato il rischio che la preghiera diventi un alibi per stabilire una «equidistanza inopportuna» o cancellare le valutazioni morali. Perché per un cristiano non è così? Qual è la sua esperienza? E dove vede la speranza davanti a tutto quanto sta accadendo? 
A proposito della preghiera mi vengono in mente le famose parole di san Giovanni Crisostomo: «L’uomo che prega ha le mani sul timone della storia». La preghiera, quindi, è una forza attiva che concorre alla trasformazione della storia, nel senso di avvicinarla sempre più a quel Regno dei cieli che il Signore Gesù è venuto a instaurare sulla terra e che tuttavia avrà la sua consumazione dopo il suo ritorno glorioso alla fine dei tempi. Non posso pertanto condividere l’opinione ricordata che la preghiera sarebbe un alibi «per stabilire una equidistanza inopportuna o cancellare le valutazioni morali».  La preghiera è sempre una presa di posizione: una presa di posizione in favore del bene, della giustizia, dell’amore, contro il male, l’ingiustizia, l’odio, in qualunque forma essi si presentino. È interessante, ad esempio, rilevare che in certi momenti della storia e in certe parti del mondo è addirittura vietato ricordare nella preghiera persone e situazioni, perché questo semplice fatto è percepito come “eversivo” di un determinato ordine o sistema.  Sottolineerei poi l’efficacia della preghiera e, quindi, la sua necessità: perché, come ricorda il Concilio Vaticano II, tutte le tensioni e i conflitti nel mondo nascono da quello squilibrio profondo che c’è nel cuore dell’uomo. Uno squilibrio che è legato al primo peccato, la disobbedienza a Dio, e viene approfondito dai nostri peccati personali. E chi può intervenire a sanare il cuore dell’uomo, a guarirlo, a pacificarlo se non Dio stesso? È lui il medico che opera nel profondo! E Lui ha voluto che l’opera della sua grazia sia invocata instancabilmente con la preghiera. Io ho fiducia nella diplomazia, ma, almeno per noi, solamente se accompagnata dalla preghiera. Qui si fonda la speranza: «Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio» (Lc 18,27).

Gerusalemme, 7 novembre 2023. Israeliani attendono notizie sugli ostaggi di Hamas (Foto Bernat Armangue/AP/LaPresse)

Per il Medioriente, fin dagli anni Quaranta, la Santa Sede ha sostenuto l’opportunità della soluzione “due popoli-due Stati” con uno status speciale per Gerusalemme, una linea seguita negli Accordi di Oslo del 1993 che è stata ribadita anche in questi giorni tragici. È una soluzione che resta percorribile?
Come più volte è stato riaffermato dalla Santa Sede in questi giorni, la soluzione “due popoli-due Stati” è la soluzione politica più urgente da percorrere, non appena le condizioni lo permettano, perché risponde alla legittima aspirazione degli israeliani e dei palestinesi: avere una propria nazione e vivere fianco a fianco in pace, sicurezza e stabilità. Inoltre, uno statuto speciale internazionalmente garantito per la città santa di Gerusalemme permetterà che i fedeli delle tre religioni monoteistiche abbiano uguali diritti e uguali doveri, e sia rispettato l’accesso ai rispettivi Luoghi santi, secondo lo status quo, lì dove si applica. Naturalmente ciò non può essere improvvisato. C’è bisogno sia di un quadro normativo chiaro che entrambe le parti devono rispettare, come anche gli Accordi di Oslo cercavano di promuovere, ma anche della fiducia reciproca, che purtroppo ora è ai minimi storici, se non azzerata completamente. Infatti, in questi giorni stiamo assistendo a un cambio – inaspettato e brutale – del corso della questione israelo-palestinese. L’attacco terroristico del 7 ottobre di Hamas e di altre organizzazioni contro la popolazione in Israele, assolutamente ingiustificabile e disumano, ha generato una grandissima sofferenza tra gli israeliani che avrà bisogno di molto tempo per essere guarita. Pensiamo alle 1.200 persone uccise barbaramente, alle centinaia di feriti, ai circa 240 ostaggi presi, alle migliaia di israeliani che hanno dovuto lasciare la loro casa perché vicino alle zone di conflitto. Penso spesso alla disperazione delle famiglie degli ostaggi, tra cui anche anziani e bambini anche neonati, e prego e auspico che vengano liberati immediatamente, come più volte il Santo Padre ha ribadito. Altresì ci vorrà molto tempo anche per superare la sofferenza dei palestinesi a seguito della risposta militare dell’esercito israeliano a Gaza. Pensiamo ai più di 10mila morti, alle centinaia di migliaia di feriti, al milione di palestinesi sfollati verso il Sud di Gaza. Anche qui i bambini, gli anziani e i civili sono coloro che ne stanno facendo terribilmente le spese. La situazione umanitaria che si è creata è gravissima. Le scuole, i luoghi di culto e persino gli ospedali non sono ambienti in cui poter stare al sicuro, per via di una tragica logica della guerra che non riesce a risparmiarli. Sono davvero preoccupato per la necessità che la popolazione a Gaza possa ricevere tutto l’aiuto umanitario necessario per sopravvivere. Ora più che mai la liberazione di tutti gli ostaggi e il cessate il fuoco potrebbe aiutare a che la situazione non precipiti ulteriormente, scongiurando un allargamento del conflitto che lo renderebbe ancor più inaccettabile. Questa grande sofferenza certamente renderà molto difficile qualsiasi negoziato, qualsiasi soluzione. Ma se si potesse ripartire dal concetto della sacralità della vita, allora si potrebbe recuperare il senso dell’umanità e della fraternità necessaria.

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Nelle nostre società prevale una “logica di schieramento”. Nei dibattiti pubblici e nelle manifestazioni sembra non ci sia alternativa al dividersi, o quantomeno a ridurre tutto a “torti e ragioni”. Una posizione che approfondisce le lacerazioni. Come si esce da questa spirale che avvelena tutti? 
Purtroppo è così. Viviamo in un mondo polarizzato, in una società sempre più divisa e contrapposta. Papa Giovanni diceva che dobbiamo cercare più ciò che unisce che quello che divide. Rimane vero anche nella situazione attuale. Tanti lodevoli sforzi vanno in questa direzione. Non dobbiamo dimenticarlo, per non cadere in un pessimismo distruttivo e incapace di vedere il tanto bene che, nonostante tutto, fiorisce attorno a noi. Ma il male che mina alla radice il nostro vivere, nei rapporti tra persone, tra gruppi, tra nazioni, è, a mio parere, la mancanza di fiducia. Non ci fidiamo più gli uni degli altri, per cui erigiamo barriere per difenderci, per garantirci, per proteggerci. Non riconosciamo più negli altri la buona fede e la retta intenzione. Tutto ciò si è tradotto e si traduce, a livello internazionale, nella crisi del multilateralismo. Il Papa ci direbbe che l’antidoto contro questa situazione, che oserei definire “tragica” perché genera e alimenta i conflitti, è l’incontro e il dialogo. Evitare di semplificare, di cadere nel manicheismo, nella propaganda unilaterale, nell’isteria bellicosa, nella menzogna! Praticare l’apertura nei confronti dell’altro, visto come fratello (è il tema della Fratelli tutti !) e non come avversario da schiacciare o su cui prevalere a ogni costo. Aprirsi alle ragioni dell’altro, cercare di capirle. Assumere il dolore dell’altro e degli altri. Farlo proprio. Sentirlo nella propria carne. Era questo l’invito che il cardinale Martini aveva espresso dopo il suo soggiorno a Gerusalemme, in relazione al conflitto israelo-palestinese di cui sopra. Ho visto che questo appello è stato ripreso in questi giorni. Mi fa piacere, perché, anche a mio parere, è la strada maestra per cominciare a uscire dalle strettoie in cui ci troviamo. In fin dei conti, la redenzione del genere umano è cominciata proprio dalla condivisione del dolore e della sofferenza dell’uomo da parte del Figlio di Dio – e quindi di Dio stesso – il quale ha assunto su di sé tutto di noi, tranne il peccato. Noi cristiani non abbiamo altra scelta: seguire con fiducia la via tracciata dal nostro Maestro e Signore.