Vincent Van Gogh, "Il buon samaritano", 1890 (particolare)

Accompagnare la vita, sempre

Un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede affronta la cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della loro esistenza. Piccolo viaggio nella Lettera "Samaritanus bonus"
Alberto Frigerio

Il 22 settembre 2020 la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato la Lettera Samaritanus bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita. L’intento, si legge nell’Introduzione, è di rispondere alle domande di chiarimento morale e indirizzo pratico sollevate dal progresso tecnologico, che incrementa il potere della pratica medica di condizionare i processi vitali, e dal mutato contesto sociale, che è connotato da apparati legislativi internazionali sempre più permissivi in materia di eutanasia e suicidio assistito.

Il Capitolo 1 presenta i fondamenti antropologici, asserendo che la persona umana, corpore et anima unus, è creatura limitata e finita aperta all’Illimitato e Infinito, come comprova la domanda di senso che la malattia e l’approssimarsi della morte pongono con drammaticità. Motivo per cui urge assumere una nozione di cura integrale, intenta a farsi carico del bisogno fisico, psicologico, sociale e altresì spirituale, inerente alla ricerca di un senso che consenta di apprezzare il valore della vita, anche nel tempo della malattia, in cui affiorano gli interrogativi più scabrosi e inquietanti: perché il dolore e la sofferenza? cosa mi aspetta dopo la morte?

Il Capitolo 2 identifica nel Crocifisso il luogo in cui si manifesta la vicinanza di Dio al dolore e alla sofferenza umana. In lui sono compendiati i mali del mondo: fisico, per le percosse e la morte di croce; psicologico, per il tradimento, rinnegamento e abbandono; morale, per la condanna innocente; spirituale, per la percezione della distanza da Dio. L’evento pasquale offre altresì il paradigma dell’atteggiamento di cura, incarnato da quanti stanno sotto la croce, Maria, le altre donne e Giovanni. La vita trova giustificazione nell’esperienza del sentirsi amati e riconosciuti nel proprio valore unico e irripetibile, soprattutto nei momenti più drammatici e concitati dell’esistenza.

Il Capitolo 3 richiama il valore inestimabile della vita umana, che è bene fondamentale in quanto condizione per la fruizione di ogni altro bene, libertà inclusa, che è dunque chiamata a prendersene cura responsabilmente. Motivo per cui sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa riconoscere la sua autonomia, che è fortemente condizionata dalle afflizioni a cui è sottoposta, ma disconoscere il valore della sua vita, precludendo ogni ulteriore relazione umana, senso del vivere e crescita teologale.

Il Capitolo 4 enuclea i fattori che nel tempo presente limitano la capacità di cogliere il valore della vita. Anzitutto l’utilitarismo, che è incentrato sul benessere psico-fisico e trascura altre dimensioni più profonde dell’esistenza, di ordine relazionale, spirituale e religioso. Poi l’emotivismo, secondo cui la compassione consisterebbe nel provocare la morte del sofferente anziché accoglierlo, sostenerlo e offrirgli affetto e mezzi per lenire i patimenti. Infine l’individualismo, che è radice della perniciosa solitudine oggigiorno dilagante, attestato dall’impoverimento delle relazioni e dalla carenza di solidarietà.

Il Capitolo 5 costituisce il nucleo dottrinale del documento, che tratta diversi temi, tra cui il divieto di eutanasia, suicidio assistito e accanimento terapeutico, le cure di base e palliative, il ruolo della famiglia, la cura in età prenatale e pediatrica, l’obiezione di coscienza degli operatori sanitari, l’accompagnamento pastorale di chi richiede eutanasia e suicidio assistito. Le questioni più rilevanti per riferimento al dibattito pubblico corrente sono tre. In primis l’eutanasia, che indica la soppressione volontaria del paziente allo scopo di eliminare i patimenti, e il suicidio assistito, che indica l’atto tramite cui il paziente si toglie la vita con l’ausilio medico per porre fine ai patimenti. Sul piano morale entrambe le pratiche sono azioni intrinsecamente cattive, che nessuna circostanza e intenzione ulteriore può giustificare. Non è la vita colpita da dolore e sofferenza a essere indegna, piuttosto il dolore e la sofferenza sono indegni della vita, motivo per cui si deve rifiutare l’eutanasia e il suicidio assistito e promuovere ogni aiuto umanamente e tecnicamente possibile per il paziente.

Sul piano giuridico il diritto alla vita costituisce il fondamento dell’ordine giuridico, in quanto sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà. Non esiste dunque un diritto a disporre arbitrariamente della propria vita, piuttosto si ha il dovere di farsene carico responsabilmente. Sul piano clinico la domanda di eutanasia e suicidio assistito è correlata al dolore non gestito e alla mancanza di speranza, umana e teologale, indotta sovente da una mancata o inadeguata assistenza umana, psicologica e spirituale. Le suppliche dei malati gravi sono infatti quasi sempre richieste angosciose di aiuto e affetto. In secundis l’accanimento terapeutico, che si riferisce agli interventi medici inadeguati alla situazione del malato, perché sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare e/o gravosi per lui e la famiglia. Il testo precisa che le cure sono sempre dovute, in quanto volte a sostenere le funzioni fisiologiche di base, almeno finché l’organismo è in grado di beneficiarne, mentre i trattamenti, volti a contrastare un processo patologico in atto, vanno attuati utilizzando mezzi ordinari e proporzionati, ossia clinicamente appropriati e soggettivamente non gravosi. In tertiis le cure di base, tra cui il testo menziona l’alimentazione e l’idratazione mentre omette il riferimento alla respirazione. La differenza tra mezzi di nutrizione e/o idratazione e mezzi di ventilazione va ricondotta al fatto che i primi forniscono sostanze assimilate autonomamente dall’organismo mentre i secondi hanno anche la finalità di ristabilire una funzione fisiologica, quella della ventilazione, altrimenti assente.

Per concludere, Samaritanus bonus offre due guadagni precipui. Sul piano dottrinale aiuta a operare un discernimento etico sull’uso in situazione di un mezzo di conservazione della vita, da intendere come processo graduale, che costituisce il risultato di una valutazione dei dati oggettivi e soggettivi, in un clima di dialogo tra paziente (o rappresentanti) e sanitari. Qualora la valutazione clinica e/o soggettiva propendesse per non adottare o sospendere il mezzo perché futile e/o gravoso, la cura proseguirà nella forma delle cure palliative, che vedono il confluire di interventi volti a controllare i sintomi fisici (dolore, dispnea, nausea, vomito incoercibile), psicologici (ansia, depressione, angoscia), spirituali (disperazione) e sociali (deterioramento dei rapporti) correlati alla malattia. La visione antropologica sottesa alle cure palliative è ascrivibile al modello «biopsicosociale-spirituale» in cui, come ha scritto Daniel Sulmasy, «trovano spazio non parti separate della realtà umana da suddividere tra specialisti, ma dimensioni distinte sempre presenti e intercorrelate nell’interezza della persona».

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Sul piano pastorale aiuta a cogliere il valore istruttivo del dolore e della sofferenza, che correggono la rozzezza che sovente qualifica la vita («L’uomo nella prosperità non comprende», Sal 48,13) e dispongono a domandare salvezza, ossia liberazione dal male e dalla morte. D’altra parte, il dolore ha un potere disarmante e dissuasivo, che può portare alla disperazione. Motivo per cui i cristiani, insieme agli uomini e alle donne di buona volontà, sono chiamati a curare la vita travagliata e afflitta, testimoniando la vicinanza e compassione di Cristo che rompe le catene mortifere del dolore e della sofferenza. È quanto si legge nella Conclusione, che richiama l’icona del Buon Pastore, paradigma della cura della vita che i discepoli del Signore sono chiamati a incarnare e testimoniare.