Paolo Nespoli.

«Perché non puntiamo alle stelle?»

Il desiderio di conoscere. L'accettare le sfide. Il bene che c'è anche in uno sbaglio... L’astronauta Paolo Nespoli, il 24 novembre ospite del Centro Culturale Talamoni di Monza, racconta cosa ha scoperto in orbita: «Una gioia da bambino»
Fabrizio Rossi

«Mi creda, è la stessa gioia che si prova da piccoli». Paolo Nespoli, classe 1957, da tempo non è più un bambino. Eppure, quando ripercorre i 157 giorni sulla Stazione Spaziale Internazionale, i suoi occhi blu si illuminano. Rientrato sulla Terra a fine maggio, tra gli astronauti italiani è il primo ad aver partecipato ad una missione di lunga durata: la MagISStra, promossa dall’Esa (European Space Agency) per realizzare decine di esperimenti tra fisica dei fluidi, radiazioni, test di attrezzature... Oltre cinque mesi su un laboratorio grande quanto un campo da calcio, che orbita a 400 chilometri dal suolo con una velocità di quasi 8mila metri al secondo: «In pratica, un giro del pianeta ogni ora e mezza». Un progetto che il mondo intero ha seguito in tempo reale grazie ai tweet, i brevi messaggi che Nespoli mandava online ogni giorno, spesso con foto spettacolari dall’alto: dalla Muraglia cinese alle Piramidi di Giza, dal Grand Canyon a una veduta di Gerusalemme by night. E ancora cicloni, lune piene, aurore boreali... «Lì ciò che pensavi di sapere non vale: devi reimparare tutto da capo. Come un bambino alla scoperta di una stanza piena di giochi». Ma ciò che più si porta in cuore sono quei 15 minuti di dialogo con Benedetto XVI, che il 21 maggio si è collegato in video con l’equipaggio. Per la prima udienza spaziale della storia: «Un momento veramente intenso. È stato il Papa a fare domande a noi. Ci ha fatto sentire importanti». Paolo Nespoli, che vive a Houston con la moglie Aleksandra e una figlia di due anni («Dopo tutti questi collegamenti in video, si è convinta che vivo nella tv»), in questi giorni è in Italia per una serie di appuntamenti tra cui un incontro su “L’attrattiva del cosmo”, il 24 novembre al Centro Culturale Talamoni di Monza.
Andiamo per ordine: com’è arrivato da un paesino dell’hinterland milanese allo spazio?
Sono cresciuto a Verano Brianza, a Desio ho frequentato il liceo scientifico. Poi ho cominciato l’università, ma non ingranava. Allora a 19 anni sono partito per il militare. Ho fatto la scuola di paracadutismo e sono rimasto nell’esercito, entrando nelle forze speciali. Dopo 18 mesi in Libano, a 25 anni mi sono chiesto cosa volessi fare davvero. Ed è tornata a galla un’idea che avevo avuto da bambino: l’astronauta.
Quando le era venuta?
Una dozzina di anni prima, davanti agli astronauti dell’Apollo in tv: li vedevo saltellare sulla Luna, parlare questa lingua strana, fare le derapate con la jeep lunare... Pensavo: «Anch’io da grande voglio fare queste cose». Il sogno di un bambino.
E invece...
L’ho coronato. Anche se all’inizio le probabilità erano davvero basse: non sapevo una parola di inglese, non avevo una laurea. Avevo imparato, però, che bisogna sempre porsi un obiettivo. E non arrendersi davanti a ciò che non va. Allora sono tornato all’università, laureandomi in Ingegneria. E nel ’91 sono entrato negli astronauti dell’Esa. Nel 2007, dopo anni di corsi e addestramenti, il primo volo nello spazio.
Ma non ha tagliato i ponti con la sua terra.
Il mio legame con il paese è sempre molto forte. Da ragazzo, con una decina di amici davo una mano in oratorio. Oggi hanno tutti moglie e figli, ma abitano sempre lì. Ogni venerdì sera si trovano a casa di uno o dell’altro, per parlare della vita davanti a pane e salame. Se non sono dall’altra parte del mondo, li raggiungo.
Cosa le permette di accettare le sfide senza arrendersi?
Ciò che ho ricevuto all’oratorio: un certo sguardo sulle cose, un modo di vivere, un’educazione. Ho imparato che c’è sempre speranza: tutti possiamo fare errori, ma allo stesso tempo guardarli e andare avanti. Poi è stata anche una lezione di vita: nello stare insieme, nel mettersi a disposizione, nel fare per gli altri. Sulla stazione spaziale è fondamentale questo lavoro di équipe: c’è un controllo continuo per intercettare gli errori anche prima che succedano.
Per esempio?
Per eseguire una certa procedura, chiami qualcuno che ti aiuti. Uno legge le istruzioni e l’altro le mette in pratica, ci si confronta. Come quando ho dovuto preparare le tute per le passeggiate spaziali: non trovavo i pezzi, alcuni volavano via, ero in ritardo... Così ho chiamato il centro di controllo: «Houston, ho un problema».
E cosa le hanno risposto?
Che stavo leggendo la pagina sbagliata. Le sviste capitano in qualunque attività scientifica. Se lì schiacci il bottone sbagliato, però, sono danni da milioni di dollari. Ma alcuni errori portano anche a delle scoperte: pensi ai post-it, nati mentre si ricercava una colla speciale. La testano e vedono che non tiene. Buttano via tutto. Poi, a qualcuno viene in mente che quel non incollare poteva essere un vantaggio. Dipende tutto da come ci stai davanti.
Che cosa ha scoperto, sia nell’errore che in ciò che ha funzionato?
Ho capito di più i miei limiti. E, al tempo stesso, che bisogna sfidarli. Lo dico sempre nelle scuole: «Ragazzi, sognate. Non tarpatevi le ali». Poi bisogna lavorarci su, fare i conti con la realtà. E vedere dove porta.
Com’è il pianeta da quel punto straordinario di osservazione?
Mi ricordava una nave immersa nell’universo. E ho pensato che dovremmo concepirci più come umani che come francesi, americani o italiani. Anziché litigare, accorgerci che siamo insieme sulla Terra. Sono solo un meccanico, un elettricista spaziale, non voglio fare teologia. Ma mi piacerebbe che il Papa potesse andare nello spazio, per poi sentire le sue impressioni. Dovrebbero andarci anche poeti, fotografi, politici...
Anche se solo in video, Benedetto XVI vi ha raggiunto per qualche minuto.
Pochi giorni prima era morta mia madre. Questo mi ha portato a pensare al senso della vita. Ho ricevuto molte condoglianze, poi quelle parole del Papa: «Anche io ho pregato per lei». Quando ci sono stati i funerali abbiamo fatto un minuto di silenzio e si sono fermati tutti i centri di controllo, dal Giappone alla Germania. Quando c’è stato il collegamento con il Papa, mi ha colpito che abbia voluto partecipare tutto l’equipaggio: protestanti, ortodossi, atei... Ci ha incoraggiato a portare a compimento la nostra impresa.
E oggi, dopo il ritorno alla normalità?
Anche il rientro è molto bello. È un risveglio dei sensi: impari di nuovo a stare in equilibrio e a camminare. Riscopri i sapori, gli odori, la bellezza di una pizza tra amici. Puoi raccontare, incontrare la gente... Davanti agli occhi spalancati dei giovani, vedo che è qualcosa che interessa dentro. Perché tocca quel motore interno che ci differenzia dal resto del creato: la voglia, l’irrefrenabile desiderio di conoscere ciò che ci sta attorno. Anche se troppo spesso non viviamo a questo livello.
Cosa intende?
Le faccio un esempio. Io mi adatto facilmente a tante situazioni, ma allo stesso tempo non sopporto le cose fatte male: un servizio che manca, un negoziante che fa la cresta, un’auto a noleggio rovinata... Perché non facciamo bene le cose? Dovremmo trattare meglio ciò che ci sta attorno. Essere critici. Sì, puntare alle stelle.