Il manoscritto della poesia "Alla sua Donna" (Su concessione del Ministero della Cultura ©Biblioteca Nazionale di Napoli).

Leopardi. Cara ineffabile Bellezza

Il manoscritto, la critica, le interpretazioni. Compie 200 anni "Alla sua Donna", la poesia più vertiginosa, incompresa e struggente dell’autore recanatese (da "Tracce" di Settembre)
Mario Elisei

«Opera di 6 giorni. Settembre 1823. All’Amor suo. Canzone Decima. Alla sua Donna». Comincia così lo scritto autografo di Giacomo Leopardi, quello che potremmo chiamare la “brutta copia” della poesia, manoscritto interessantissimo da visionare sia per i contenuti – le cosiddette varianti, cioè le intuizioni, le idee ispiratrici –, sia per la modalità di composizione. Già nell’incipit emergono indicazioni sostanziali dove «Donna» è scritto con la “D” maiuscola e anche «Amor», nel primo spunto di titolo, poi cassato, è scritto con la “A” maiuscola. All’idea di Donna, All’Amor suo Leopardi assegna una singolarità, una sua eccezionalità.

Alla sua Donna è uno dei miracoli della lirica leopardiana. È un peccato che non venga studiata a scuola. La canzone è stata composta dopo più di un anno di silenzio poetico dall’ Inno ai patriarchi e quando i suoi interessi erano già diretti alla composizione delle Operette morali. È una poesia d’amore dedicata non alla donna-idea, ma alla donna-bellezza, e vedremo la differenza.

La poesia è stata oggetto di approfondita analisi da parte della critica, la quale ha tentato di interpretarne il contenuto sezionando le parole, astraendo i versi, ma censurando il contenuto d’insieme. Lo stesso Pietro Giordani, primo amico di Leopardi, la interpretò in modo fuorviante e anche il Manzoni disse di non capirla dichiarando di annoverarla tra le cose «più oscure e meno poetiche» dell’autore recanatese. In effetti, il canto Alla sua Donna è strano rispetto a tutta la produzione leopardiana perché mette a tema contenuti quasi sfuggiti di mano all’autore. Troviamo tematizzato un “assoluto”, la bellezza, personificata nella figura della «donna che non si trova», ma che comunque c’è e il poeta stesso ne è certo.

Leopardi tenta di sviare il lettore attraverso la spiegazione di ciò che la sua misteriosa donna rappresenta: «La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova» (così scrive Leopardi nell’Annuncio premesso alla ristampa delle Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824). Ma produce l’effetto contrario: il lettore attento si incuriosisce e cerca di capire chi possa essere questa donna che non si trova.

L’ispirazione poetica sorge su antefatti esperienziali. Giacomo per la prima volta riesce a ottenere dai genitori l’autorizzazione a uscire da Recanati. Non era mai uscito da solo e ora - siamo nell’autunno 1822 - è diretto a Roma, ospite dello zio Carlo Antici. Gli è data la possibilità di vivere in libertà. Presto però Roma lo delude, è una città troppo grande per lui abituato a vivere in ambiti circoscritti, non incontra poi persone che lo attraggono, frivolezze e mondanità sono lontane dal suo sentire, il suo stile solipsista non lo agevola nei rapporti. Nella Città eterna due circostanze, comunque, lo segnano in modo decisivo: la traduzione dell’opera di Platone per l’editore De Romanis e l’incontro con André Jacopssen, un giovane belga con il quale ha fatto amicizia e che “sente” come lui.

Nella primavera successiva torna a Recanati e porta nel cuore queste due esperienze, alimentate nella sua coscienza dal desiderio di rivedere i suoi e dallo stupore dell’incanto delle colline marchigiane rigogliose di colori primaverili – i «campi ove splenda più vago il giorno e di natura il riso» (Alla sua Donna, versetti 5-6). L’entusiasmo, tipico dell’indole del poeta, passa subito; Leopardi scrive al Giordani che gli pareva «di ritornare al sepolcro, avendo goduto poco o nulla, perché di tutte le arti quella di godere mi è la più nascosta». Anche la creatività si riduce: quell’anno, abbiamo detto, compone solo Alla sua Donna.

Roma segna comunque Leopardi, che porta con sé a Recanati il desiderio, grande, di una donna da amare e anche la ricerca di amici veri, alla sua altezza. Una donna non c’era all’orizzonte ma un amico sì. In giugno riceve da Jacopssen una lettera che rivelava nei confronti della vita un atteggiamento simile a quello di Giacomo, il quale subito gli risponde con parole vibranti: «In verità, mio caro amico, il mondo non conosce affatto i propri veri interessi. Converrò, se si vuole, che la virtù, come tutto ciò che è bello e tutto ciò che è grande, è soltanto un’illusione. Ma se questa illusione fosse generale, se tutti gli uomini credessero e volessero essere virtuosi, se fossero compassionevoli, caritatevoli, generosi, magnanimi, pieni d’entusiasmo; in una parola, se tutti fossero sensibili (poiché non faccio alcuna differenza tra sensibilità e ciò che viene chiamato virtù), non si sarebbe forse più felici? Ogni individuo non troverebbe mille risorse nella società? Quest’ultima non dovrebbe impegnarsi a realizzare le illusioni per quanto le fosse possibile, dato che la felicità dell’uomo non può consistere in ciò che è reale?».

In un breve frangente di tempo sembra che nell’animo del poeta avvenga una mutazione, la sua autocoscienza si apre al positivo, la lettera a Jacopssen lo testimonia. L’incontro, seppur epistolare, con un amico, è una novità che prende la sua mente e la proietta verso un’ispirazione che gli permette di capire quale tipo di donna possa veramente amare e dalla quale possa sentirsi veramente amato. Non, dunque, un’idea di donna, non una beltà con determinati tratti somatici – «e s’anco pari alcuna ti fosse al volto, agli atti, alla favella, saria, così conforme, assai men bella» – ma la Donna-Bellezza-assoluta che certamente si cerca, e che, proprio perché infinita, non si trova.

Così a settembre, in sei giorni, scrive Alla sua Donna. L’opera ha una genesi molto complessa, il lavoro preparatorio di ricerca del lessico è immane e il manoscritto lo testimonia. È l’esito poetico di quello che potremmo chiamare il frangente platonico di Leopardi. Il Platone amato e odiato da Leopardi! Tutto questo ci fa capire la difficoltà interpretativa di molta critica, che per studiare questa poesia utilizza il criterio dello “spelling” piuttosto che quello evocativo. Occorre avere un’umanità potente per poter capire tutto il dramma presente nella poesia di Leopardi, specie in Alla sua Donna. Solo una capacità empatica, quasi un’immedesimazione con l’autore, un vero atteggiamento critico permette di valorizzare tutto ciò che di vero si può incontrare nella letteratura.

Giacomo si rivolge direttamente alla «cara bellezza», che gli ispira amore da lontano, nascondendo il volto tranne che nel sonno, come un’ombra divina che gli scuote il cuore, o come nei campi quando splende il sole e la natura irride alla bellezza. Hai reso beato il secolo che è stato chiamato «età dell’oro»?, le chiede. O lievemente voli tra la gente come un’anima? Oppure la «sorte avara» che non permette a noi di vederti sarà meno amara per chi verrà dopo di noi? Non ho più speranza di vederti viva, o bellezza, confessa il poeta, che si strugge per tale dolore che il fato destinò all’umanità. Se vera come ti immagino qualcuno ti amasse sulla terra, per lui il vivere sarebbe felice e con te la vita mortale diventerebbe come quella di chi sta in Paradiso.

Nonostante lo svanire del sogno giovanile, nel rimpianto dei desideri perduti, Leopardi ammette di sobbalzare ancora per questa bellezza: «Di te pensando, a palpitar mi sveglio». E in questo «secol tetro», che bella cosa avere sempre vivo questo desiderio, e appagarsi dell’immagine di tale bellezza, visto che il suo vero volto è negato! A tale “eterna idea”, alla quale «l’eterno senno» (cioè l’Essere) non permette, secondo l’ateo Leopardi, di farsi carne mortale, il poeta invia questa preghiera come un amante che resta sconosciuto all’oggetto del suo desiderio, costretto a trascorrere la vita «di qua dove son gli anni infausti e brevi». In questa pagina riportiamo le ultime righe della composizione.

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A don Giussani dobbiamo una ripresa di questo canto. Grazie a lui, molti lo hanno imparato a memoria. «Leopardi», scrive Alberto Savorana nella Vita di don Giussani, «è una delle grandi passioni di Giussani, cui rimarrà fedele per tutta la vita. Si imbatte nel poeta in terza ginnasio, leggendone i Canti. Da uno, in particolare, l’inno Alla sua Donna, rimane talmente scosso da recitarlo come preghiera di ringraziamento dopo la Comunione». Dice don Giussani: «Era un inno non a una delle sue “amanti”, ma alla scoperta che improvvisamente aveva fatto [...] che ciò che cercava nella donna amata era “qualcosa” oltre essa, che si palesava, si comunicava in essa, ma era oltre essa». È un'esperienza che non è negata a nessuno.