Jérôme Lejeune (Fondation Jérôme Lejeune/Wikimedia Commons)

Jérôme Lejeune. Se la scienza è plasmata da un'attrattiva

Il medico francese e la sua libertà nel fare ricerca raccontati da Aude Dugast, postulatrice della sua causa di canonizzazione. Un uomo che per tutta la vita ha lavorato sulla cura della sindrome di Down
Daniele Banfi*

«Un uomo con un cuore grande e un’intelligenza fuori dal comune sempre proteso alla ricerca della verità». È con queste parole che Aude Dugast - postulatrice della causa di canonizzazione di Jérôme Lejeune - descrive la figura dello scienziato francese che per primo scoprì la causa genetica della trisomia 21, ai più conosciuta come sindrome di Down. Dichiarato venerabile da Papa Francesco il 21 gennaio 2021, nel libro Jérôme Lejeune. La libertà dello scienziato (Cantagalli) la Dugast - con un lavoro di analisi e raccolta di testimonianze durato undici anni - ripercorre le tappe che hanno portato il ricercatore francese ad essere ancora oggi un esempio per molti giovani che intraprendono la carriera di medico e un sostegno alle migliaia di famiglie che hanno un proprio caro affetto da sindrome di Down.

«La straordinaria storia di Lejeune inizia con un incontro. A quel tempo, parliamo dell’inizio degli anni Cinquanta, al giovane medico viene chiesto di occuparsi di una malattia di cui nessuno voleva sentire parlare. Il “mongoloidismo”, così veniva definito dalla medicina, era vissuto con vergogna, qualcosa da nascondere agli occhi della società perché considerato un castigo divino per i genitori e in particolare nei confronti del padre. È in questo contesto culturale che Lejeune, incontrando in corsia i piccoli malati e donandosi completamente a loro, porrà le basi per una rivoluzione scientifica e umana».

Pochi mesi prima di sposarsi con Birthe - una giovane donna danese protestante che, durante il fidanzamento, si convertì alla fede cattolica - in una lettera indirizzata alla futura moglie, Lejeune descrive quello che sarà il loro progetto di vita: «La ricerca di una cura per questi bambini ci chiederà grandi sacrifici ma sono certo che ci riusciremo». I genitori dei piccoli pazienti, a distanza di anni, testimoniano ancora oggi la straordinarietà dell’uomo e dello scienziato: durante la prima visita, con delicatezza, accoglieva i suoi piccoli malati chiedendo loro il nome. «Guardava mio figlio con gli occhi di Cristo». «Ha guardato il mio bambino come se vedesse Cristo sulla croce». «Questo suo comportamento - continua l’autrice - affondava le radici nel suo rapporto con Gesù nelle parole del Vangelo: “Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei discepoli, l’avete fatto a me”. Le famiglie, da questo incontro, uscivano confortate e fiduciose per il futuro».

C’era un prima e c’era un dopo anche nell’incontro con i colleghi. Come raccontato sulle pagine di Avvenire dal neurologo Gian Luigi Gigli in occasione della beatificazione: «L’incontro con Lejeune è stato per me, medico, un esempio tangibile di come fosse possibile coniugare la fede e la scienza senza difficoltà ed esitazioni, senza paure e senza timidezza, semplicemente per rendere testimonianza alla verità».

Il suo costante e appassionato lavoro lo porterà, insieme al suo gruppo di ricerca, ad individuare le cause della sindrome di Down. Una scoperta epocale per quegli anni. Se oggi possiamo conoscere il nostro Dna in ogni dettaglio, sul finire degli anni Cinquanta l’analisi del patrimonio genetico era tutt’altro che semplice. Ma fu proprio grazie alle intuizioni di Lejeune che si scoprì in queste persone la presenza di una copia in più del cromosoma 21. Un risultato straordinario che lo rese celebre in tutto il mondo tanto da essere considerato il padre della genetica moderna».

Presto però a Lejeune fu chiaro che la portata della sua scoperta poteva essere utilizzata non più al servizio della vita ma contro. «Negli anni Settanta, complice la possibilità di conoscere prima della nascita l’eventuale presenza di quel cromosoma in più attraverso i test di diagnosi prenatale, cominciarono i primi aborti», racconta la Dugast: «Una situazione a cui Lejeune si oppose strenuamente». A segnarlo fu un episodio particolare avvenuto nel suo studio: «Un suo piccolo paziente corse ad abbracciarlo impaurito perché la sera prima, in un talk show televisivo, comprese che “quelli come lui” potevano essere eliminati dal grembo materno. Non sarebbe nato più nessuno come lui».

La sua intelligenza «attaccata alla verità», così la descrive la Dugast, ovvero la sua capacità di concorrere con la ricerca al servizio del bene più grande che è la vita, lo porterà progressivamente ad essere emarginato da una buona fetta del mondo scientifico e accademico. Ma di questa situazione non vi è traccia di alcun lamento nelle sue testimonianze e lettere. Lejeune ha attraversato un vero e proprio deserto per servire la vita e occuparsi dei suoi piccoli pazienti. «L’eroicità di Lejeune è proprio qui: poteva non prendere posizione, evitare di esporsi pur rimanendo della sua idea, stare in silenzio per non perdere quanto acquisito. Ma nonostante le pressioni e le misure ritorsive contro di lui, viaggiò in tutto il mondo per testimoniare la bellezza e la dignità inviolabile della vita umana davanti ai Parlamenti, alle assemblee degli scienziati e ai mass-media».

La vita di Lejeune, come testimoniato dalle tante persone che lo hanno conosciuto, è stata caratterizzata da intensa e costante preghiera, partecipazione assidua alla Messa e ai sacramenti, profonda devozione alla Vergine Maria e ai Santi, in particolare a san Vincenzo de’ Paoli e san Tommaso Moro, assoluta fedeltà al Santo Padre e alla Chiesa. «Lejeune - prosegue la Dugast - si affidava pienamente alla Divina Provvidenza, infondendo negli altri, soprattutto nei suoi pazienti, nei colleghi e amici, una ferma confidenza nell’aiuto divino. Egli era ben consapevole della necessità di portare la croce per seguire il Signore, e questo non lo spaventava, anzi gli dava la forza per affrontare con ottimismo e determinazione le difficoltà e le avversità».

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Anche se sui libri di medicina Lejeune è ricordato poco o nulla - della trisomia 21 si ricorda solo chi la descrisse per la prima volta - la sua eredità scientifica e spirituale è più florida che mai. Sul piano scientifico non si fermò alle sole cause, ma ipotizzò che la malattia fosse un problema nel metabolismo cellulare, in particolare un accumulo di sostanze, che intossica i neuroni causando così la disabilità intellettiva. Ipotesi impossibile da verificare in quegli anni. Ma quella teoria oggi ha trovato riscontro negli studi di alcuni gruppi di ricerca che si occupano di sindrome di Down, come quello del professor Pierluigi Strippoli dell’Università di Bologna, che nel 2011, dopo aver conosciuto meglio la figura del genetista francese e aver intrapreso rapporti con la sua famiglia, ha iniziato a concentrare la sua ricerca proprio sulla natura metabolica della sindrome.

«Alla morte di Lejeune avvenuta nel 1994 è parso chiaro a tutti che la ricerca sulla trisomia 21 non sarebbe più andata avanti», conclude la Dugast: «È per questa ragione che è nata la Fondazione Lejeune, una realtà che in tutti questi anni ha continuato ad assistere tanti bambini e famiglie». Ma c’è un’altra eredità, quella spirituale, che Lejeune ha lasciato e i cui frutti continuano a nascere: «È straordinario vedere come tanti giovani che stanno affrontando il percorso di studi di medicina scelgano proprio lui come modello a cui ispirarsi. L’attrattiva per Lejeune, oggi, è più viva che mai. Un’attrattiva capace di plasmare il modo di essere medico con uno sguardo rivolto alla totalità della persona».

*giornalista medico-scientifico