Giovanni Chiaramonte (Foto Luca Fiore)

Giovanni Chiaramonte. «Salvare l'ora»

È morto il 18 ottobre. Fotografo, grande artista e maestro appassionato. Che ha sempre riconosciuto nell’esperienza di fede proposta da don Giussani il nucleo incandescente da cui si sprigionava il suo fare. Ecco chi era
Luca Fiore

Tra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, don Giovanni Gola è coadiutore nella parrocchia di Regina Pacis nel quartiere Gallaratese di Milano. Case popolari in costruzione, tanta immigrazione, moltissimi giovani. Da pochi anni ha conosciuto don Giussani e, con un gruppo di ragazzi, ha cominciato a seguirlo. Racconta: «A un certo punto, attorno al 1970, è nato un “gruppo di comunione”. Pensavamo che tutto doveva essere messo in comune. Ci eravamo dati una regola. I beni erano messi insieme, anche se non erano molti, perché tanti studiavano ancora. La prospettiva dei ragazzi era di andare a vivere insieme. Ci dicevamo: è necessario che ci facciamo giudicare dal gruppo di comunione perché occorre un confronto sulla propria vita. Sulla linea della condivisione dei beni, e di una certa povertà, riprendevo Giovanni Chiaramonte che continuava a spendere soldi per le macchine fotografiche. Ho rischiato di bruciargli la sua vocazione per la fotografia…».

Giovanni è morto il 18 ottobre a 75 anni. Tutta la comunità della fotografia italiana, chi lo amava e anche chi lo ha ostacolato pur riconoscendone il valore, piange la perdita di un grande artista e di un maestro appassionato. Ma è impossibile capire il suo percorso artistico e umano, senza partire da quel “gruppo di comunione” che ha messo alla prova l’inizio della sua passione per la fotografia. Fino alla fine ha riconosciuto nell’esperienza di fede proposta da don Giussani il nucleo incandescente da cui si sprigionava il suo fare. Fino alla fine, attraversando delusioni e incomprensioni, ha desiderato vivere l’esperienza cristiana dentro una fraternità nell’alveo della Chiesa e ha sofferto quando quell’amicizia non gli sembrava all’altezza del suo desiderio umano.



Arturo Carlo Quintavalle, sulle pagine del Corriere della Sera, ha scritto: «La storia di Chiaramonte attraversa gli ultimi cinquant’anni con una ricchezza di creazioni, una continuità di scelte, una passione per la fotografia che è stata di pochissimi. La sua è una figura complessa, certo di fotografo, ma prima ancora di storico della fotografia e poi di docente, uno dei pochi che sapevano fare scuola, accostarsi agli allievi, seguirli nel tempo. Ha insegnato in diverse università, da Palermo a Parma, allo Iulm a Milano, ha insegnato non a fotografare, ma a vivere nel reale per fotografarlo».

Se il magistero e l’amicizia di don Giussani lo ha convinto che la fede dovesse plasmare tutta la sua personalità e dunque anche il suo modo di fotografare, è l’amicizia con Luigi Ghirri e tutta la cerchia di quelli che sarebbero diventati i maestri della fotografia italiana a permettergli di farlo ai massimi livelli. La sua è un’arte colta, che usa il linguaggio al suo massimo livello di espressività, usa le immagini allo stesso modo in cui il poeta usa le parole. Ma è ciò che vive e pensa prima di prendere in mano la macchina fotografica a permettergli di guardare e sentire in modo diverso e inquadrare e scattare al posto giusto nel modo giusto. Sintesi del suo percorso artistico, composto da decine di libri e mostre, sono forse i due tra gli ultimi libri realizzati: La misura dell’Occidente (Postcart, 2018) e Realismo infinito (Electa, 2022).

In un’intervista a Il Foglio, per spiegare che cosa fosse per lui realizzare immagini, ha detto: «La Bibbia dice che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. Il che significa che l’eterno, l’infinito, ha scelto di creare me come immagine. Anche il mondo, la creazione, presentandosi a noi come dato di realtà, suggerisce l’esistenza di un “datore”. Io posso comprendere che cosa sono nel momento in cui prendo coscienza di questa mia misteriosa somiglianza. A me che sono fotografo, produttore di immagini, è dato il compito di svelare così il destino dell’uomo e del mondo».



E parlando della sua fotografia scriveva: «Il mondo dell’uomo nelle mie immagini si rivela come un piano senza fine immerso in una sorta di luminosa lontananza sospesa nel tempo. L’evidenza degli elementi in primo piano cerca di non invadere e non chiudere mai l’enigmatica ampiezza del campo visivo; e così fa in modo che lo sguardo si possa aprire lentamente alla percezione degli eventi che sono rappresentati il più delle volte lungo l’ultima profondità della scena, o addirittura sulla soglia dell’orizzonte». E continua: «Il tempo di questo movimento dello sguardo è analogo al lento musicale: è il tempo del contemplare, reso possibile dalla rarefazione degli elementi significativi e dalla loro messa a distanza sull’alzato degli assi prospettici di terra. È un vuoto necessario al vedere come il silenzio interiore è necessario per ascoltare dai margini di un parco, o dalle ultime vie di una periferia, i suoni che si alzano dalla città e per distinguere tra il rumore della risacca del mare l’abbaiare di un cane, o le voci di uomini e donne portate dal vento con le grida di ragazzi che giocano al pallone sulla spiaggia lontana».

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È impossibile qui riassumere le opere da lui realizzate, ma forse è importante ricordare la sua collaborazione con la Diocesi di Milano per la realizzazione del nuovo Evangeliario ambrosiano, per il quale ha realizzato alcune polaroid. A quanto mi risulta, sono le prime fotografie mai utilizzate nella storia dell’arte liturgica della Chiesa cattolica. Ha descritto così quell’esperienza: «Era un periodo difficile. A causa di una forte depressione i medici mi avevano vietato di fotografare con l’attrezzatura professionale: macchine di medio formato su cavalletto, che necessitano uno sforzo fisico ed emotivo che, in quel periodo, non sarei riuscito a sopportare». La chiamata dell’arte è più forte e il fotografo si arma di uno strumento rudimentale: una macchina a sviluppo istantaneo, che non permette nessun tipo di intervento prima e dopo lo scatto. Una Fuji Instax da cento euro. «Una mattina tornato da messa, che era stata una luce nel mio buio, sono entrato nella sala da pranzo di casa mia. Il sole dell’inverno attraversava le tende, tracciando una linea sul tavolo. Il raggio colpiva un sigillo di cristallo che rifrangeva l’arcobaleno dei diversi colori». È un’epifania. Tira fuori la macchina, si avvicina, e scatta. «Quella piccola immagine, sei centimetri per dieci, aveva tutta la forza di ciò che stavo sentendo in quel momento. Mi resi conto che, per rispondere alla commessa della Diocesi, io potevo solo tracciare immagini del mio rapporto con Dio, così come appare nei luoghi domestici dove mi trovo a pregare ogni giorno. Ciò che potevo fare era dare testimonianza della mia esperienza di fede, mostrandone queste piccole tracce».

Si tratta del primo nucleo di Polaroid che andrà a formare la serie pubblicata nel libro Salvare l’ora (Postcard, 2018). Insieme alle immagini, Chiaramonte decide di pubblicare, su consiglio dell’amico poeta Umberto Fiori, alcuni haiku, che negli anni precedenti aveva scritto e mandato agli amici. Gli ultimi due componimenti del libro sono questi: «Oltre la morte / Custodire il tempo / Salvare l’ora» e «Inizia il giorno / Si sveglia il cuore e guarda / inizia il mondo».