Francesco Fadigati

Il romanzo e la scintilla

Come si diventa scrittori, soprattutto quando ci si rivolge a dei giovani? Un dialogo con Francesco Fadigati, insegnante con la passione per lo scrivere, autore di diversi libri e racconti
Maria Acqua Simi

Cosa succede quando un insegnante decide di scrivere romanzi, e per lo più romanzi per ragazzi? Come ci si immedesima con degli adolescenti senza risultare stucchevoli? E come si diventa scrittori? A tutte queste domande ha risposto Francesco Fadigati, docente e rettore della scuola “La Traccia” di Calcinate (Bergamo), autore di numerosi racconti e di diversi libri tra cui La Congiura delle torri (2011), Da questi luoghi bui (2015), Ti aspetterò fino alla fine del mondo (2021) e Too much man (2023). Le risposte, non scontate, nascono da una vita vissuta. E da una scrittura, per sua stessa ammissione, di anno in anno «sempre più incarnata».

Partiamo dall’ultimo romanzo: di cosa parla e come è nato?
È stato pubblicato nel maggio del 2023 ed è un romanzo che parla di un ragazzo, Giacomo Coralli, che non riesce più ad uscire dalla propria stanza. Sta soffrendo, ha una paura radicale di quello che è fuori dalla sua comfort-zone, vive un’insicurezza su tutto, come tanti suoi coetanei. Ma io nel libro non volevo mettere a tema questo, il libro non è nato per parlare di questi problemi. È nato come obbedienza a una scintilla.

Una scintilla?
Sì. Una domenica pomeriggio mi trovavo a scuola, stavo sistemando l’ufficio e a un certo punto ho avuto il bisogno di scrivere un’immagine che mi era nata dentro: quella di un ragazzo che si affaccia a una finestra, in una domenica grigia di febbraio, e ha la sensazione di sporgersi sul trampolino di una piscina vuota. Guardando il cortile della propria casa è come se vedesse una piscina, ma senz’acqua. E mentre pensavo a questa immagine, mi rendevo conto che nasceva dallo struggimento che avevo per accompagnato in quei mesi tanti ragazzi che si sentono come sul filo di un burrone. Ragazzi che non riescono a percepire che la fatica che provano nell’uscire di casa ha un senso. Siccome c’è una forte mancanza di significato, quello che sta fuori dalla porta è percepito come un nemico, è un ostacolo che può mettere in crisi la percezione che hai di te stesso, spesso ridotta alla propria performance. Ho fatto leggere quasi per scherzo quella intuizione alla mia editor, che tra le mani aveva un altro mio manoscritto finito e molto più strutturato su cui avevo lavorato molto, ma quando ci siamo incontrati lei mi ha detto che quella intuizione era una storia. Andava portata avanti. E così è nato Too much man.

Ma come si porta avanti un’intuizione, la scintilla?
Mi sono immedesimato in quel ragazzo, ho provato a trovare le parole che andavano dietro a quella scintilla nutrendo tutta la curiosità possibile verso questo personaggio: perché è lì, chi sono i suoi genitori, che cosa ama, cosa vive, cosa gli fa aprire gli occhi la mattina? Vivendo anche il dramma di capire che spazio c’è per lui nel mondo, cosa lo tira fuori di casa? Come mi è successo nei romanzi che ho scritto per i giovani, ma anche quelli per il pubblico più maturo, in quei mesi la sua storia mi ha fatto compagnia, ha accompagnato il mio quotidiano. La vedevo svelarsi man mano nascevano nuove domande e intuizioni. Ma il libro non è nato subito, nessun libro nasce subito: nasce quando, completato l’arco narrativo, io rientro nella storia e comincio a revisionarla, cercando di capire cosa c’è in gioco. Quando scrivo, tanto di quello che io esprimo è come un grumo incomprensibile e implicito. Tutto il lavoro successivo è entrare in questo implicito e cogliere quali personaggi stanno giocando la partita più forte, seguirli, scolpirli, tirarli fuori.

Quando scrivi, tu per chi scrivi?
Questa è una domanda importante. Ho imparato, negli ultimi due romanzi scritti per ragazzi, ad avere negli occhi degli interlocutori. Se parlo con gli adulti uso un determinato registro, in classe con gli studenti un altro. E non perché io debba abbassare il tiro, ma perché avendo negli occhi dei giovani che stanno attraversando quella mareggiata che è l’adolescenza, piena di avventura e di audacia ma anche di tempeste, mi rendo conto che il mio dire deve essere più sintetico, essenziale, devo andare al nocciolo. Ogni scena che scrivo io devo mostrarla a loro nella sua fibra viva. Nel rapporto con i ragazzi non ci si può disperdere sugli orpelli, si deve andare dritti al punto. Quando scrivo per i ragazzi ho in mente le facce dei miei alunni. Non imito il linguaggio dei ragazzi. Parlo con loro.

Come hai fatto però ad immedesimarti in ragazzi che hanno 15-16 anni?
Convivendo in classe con loro, mi sono immedesimato nella radice viva che loro hanno, in quelle loro domande che scalpitano. Questo è anche mio. Io ho 42 anni e rimango un adulto, ma vedere questa vita che si agita e ribolle, incespica alla ricerca del vero mi fa provare una simpatia immediata e allora i toni, le immagini e il lessico che uso si modulano su quella vita. Ma con naturalezza.

Quando hai iniziato a scrivere?
Alle medie. Mi mettevo al tavolo, temperavo la matita e scrivevo le mie storie. Poi sono andato avanti scrivendo racconti. Per me è stato importantissima la partecipazione, al primo anno di università, alla scuola di scrittura Flannery O’Connor perché lì ho incontrato un maestro, Luca Doninelli. Lui ha creduto in me, mi ha aiutato, sostenuto in tutti i modi. Mi diceva che dovevo “abbassarmi” perché a me veniva naturale all’epoca imitare Italo Calvino, Pirandello o Achille Campanile… Invece ho scoperto che catturare la parola semplice, andare ad afferrare l’oggetto tagliando una perifrasi è veramente un lavoro faticoso. Nel 2011 pubblicai così il mio primo romanzo storico, La congiura delle torri.

Come si concilia il lavoro di insegnante con la scrittura?
Quando ho iniziato a insegnare a “La Traccia”, mi sono domandato se dovessi sacrificare il mio amore per la scrittura sull’altare dell’educazione. Ho chiesto al buon Dio cosa voleva da me. La risposta è arrivata in maniera inaspettata, ma puntuale come tutte le volte in cui ho domandato al Signore con cuore sincero. La mia padrona di casa, Maria Teresa, era una grandissima studiosa del Medioevo: una sera mi offrì una cena e dopo mi portò a visitare un monastero, allora abbandonato. Il monastero di Astino. Quella sera sono tornato a casa, dove avevo pile di verifiche di grammatica da correggere, e mi sono messo a scrivere una scena ambientata lì. Ci ho messo cinque anni, con la consulenza e l’aiuto di Maria Teresa ma il romanzo è nato.

Tu come sei cambiato in questi anni?
Sono cambiato in tutto, sul fronte della scrittura ma anche su quello di insegnante e di uomo. La congiura delle torri, ad esempio, è stato il primo romanzo dopo tanti racconti. Nel racconto breve tu hai anche quel giusto spazio per gustare un lessico più ricercato, che pesca in profondità. Nell’estensione del romanzo tu non puoi avere la stessa intensità, deve prevalere l’azione, ma io questo l’ho imparato nel tempo. Oggi faccio tantissime revisioni ai miei romanzi, e ogni “passata” è un lavoro di modulazione del lessico per avvicinarmi al cuore della storia. Ogni revisione è un nuovo inizio. E in queste revisioni chiedo aiuto a tanti amici lettori che mi aiutano a restare fedele alla scintilla di cui parlavo all’inizio. E così oggi la mia scrittura è molto più essenziale di un tempo. È più incarnata.

In che senso “incarnata”?
La grande sofferenza della scrittura è che tu ti metti a disposizione perché si incarni un personaggio, perché una storia cresca attraverso di te, prenda vita, prenda carne. E in questo non servono spiegazioni. Occorre la carne della storia. La mia editor mi dice sempre: «Fidati della storia». Cioè fidati dei personaggi, perché se sei autentico, dentro questa loro carne c’è tutto. Anche il senso delle cose. E questi personaggi mi hanno fatto tanta compagnia: mentre ero a casa, mentre andavo a scuola, mentre lavoravo. Sono convinto che tanto di quello che vivo nello struggimento educativo poi entra, non fotocopiato, nelle pagine di quello che scrivo. Pirandello diceva che la vita o la si vive o la si scrive. Nel mio caso, più la vita la vivo, più cresce in me il desiderio di scriverla.