Seamus Heaney (Foto Leonardo Cendamo/Getty Images)

«Fidati della percezione di quel nocciolo di tesoro»

Dieci anni fa moriva il poeta irlandese Premio Nobel Seamus Heaney. Un Virgilio in un’epoca di disorientamento, raccontato su "Tracce" di dicembre
Luca Fiore

Giampiero Neri, poeta milanese scomparso quest’anno, diceva che la poesia non va a capo. Era il suo modo, un po’ provocatorio, per spiegare che l’arte non si intrappola nelle forme e nei canoni. È piuttosto qualcosa di selvatico, come un cerbiatto che ci attraversa la strada di notte. La poesia è un momento di verità.

Nel suo discorso alla consegna del Premio Nobel per la Letteratura del 1995, Seamus Heaney ha raccontato un aneddoto che ha il sapore della poesia che amava Neri. Si tratta di uno degli avvenimenti più strazianti della storia dell’Irlanda del Nord. È una sera del gennaio 1976, quando un furgoncino pieno di operai di ritorno dal lavoro è fermato dai fucili di un commando di uomini mascherati. I passeggeri vengono fatti scendere e allineati al bordo della carreggiata. «Chi di voi è cattolico si faccia avanti», dice uno dei terroristi. Sono tutti protestanti tranne uno. La convinzione è quella di essere incappati in un gruppo di paramilitari filo-inglesi. Stare fermo e salvarsi o fare un gesto di testimonianza eroica? Nell’istante stesso in cui l’uomo inizia a muoversi, sente il vicino protestante che tenta di trattenerlo stringendogli la mano, quasi a dire: «Nessuno ha bisogno di sapere di che fede sei». Ma è ormai troppo tardi. L’operaio cattolico non fa neanche in tempo a rendersene conto che i suoi compagni protestanti sono falciati da una raffica di proiettili dell’IRA. Chiosa il poeta: «La nascita del futuro che desideriamo sta sicuramente nella contrazione che quel cattolico atterrito sentì sul ciglio della strada quando un’altra mano afferrò la sua, e non nella sparatoria che ne seguì, così assoluta e desolata, anche se pure essa è parte della musica di ciò che accade. Come scrittori e lettori, come peccatori e cittadini, il nostro realismo e il nostro senso estetico ci fanno esitare a dare credito alla nota positiva».

Seamus Heaney è nato nel 1939 in una famiglia cattolica della Contea di Derry, in un villaggio a 50 chilometri da Belfast. Ed è morto nel 2013 a Dublino, dove ha vissuto per più di 35 anni. Si è guadagnato da vivere insegnando, prima nella capitale irlandese, poi ad Harvard e a Oxford. Di recente Mondadori ha ripubblicato, nella collana dello Specchio, il Meridiano che lui stesso aveva curato raccogliendo il meglio della sua poesia. Il volume si conclude con il discorso di Stoccolma, sintesi profonda e illuminante del senso di fare poesia e del modo in cui essa si intreccia con i drammi e i dilemmi della vita e della storia. La figura di Heaney, al momento del conferimento del massimo riconoscimento letterario, era già conosciuta dal popolo irlandese che considerava la sua opera una guida virgiliana in un tempo di grande disorientamento.

Le sue parole hanno accompagnato i lettori, dentro e fuori dall’Irlanda, mentre l’isola sprofondava nella confusione dei Troubles, un conflitto civile lungo trent’anni. Erano versi in una lingua all’altezza della tragedia che avevano davanti agli occhi: «Mi caricavo sulle spalle una specie di età virile / facendomi avanti per sollevare le bare / dei parenti morti. / Erano stati composti // in stanze infette, le palpebre luccicanti, / le mani bianche come pasta / incatenate in grani di rosario». Oppure: «Mantieni limpido il tuo occhio / come la bolla d’aria nel ghiacciolo, / fidati della percezione di quel nocciolo di tesoro / che le tue mani hanno conosciuto». E ancora: «Io sono Amleto il Danese, / maneggiatore di teschi, parabolista, / fiutatore di marcio / nello Stato, infuso / dei suoi veleni, / paralizzato da fantasmi / e affezioni, / omicidi e pietà, / che giunge a conoscenza / saltando nelle tombe, / oscillando, parlando a vanvera». Ma Heaney non fu un poeta civile come di solito lo si immagina. Anzi. Innanzitutto perché la sua poesia è stata sempre legata ai temi della terra, della vita rurale e della natura, cose da nulla trasfigurate attraverso il suono delle parole e la precisione delle immagini. La prima poesia contenuta nell’antologia di Mondadori si intitola Digging, scavare: «Between my finger and my thumb / The squat pen rests; snug as a gun». Ovvero: «Tra il mio pollice e l’indice riposa / la tozza penna, comoda come una pistola».

La poesia prosegue descrivendo un rumore che arriva dalla finestra. È il padre che vanga la terra per piantare le patate. Poi evoca il nonno che, anni prima, si rompeva la schiena in una torbiera. «Ma non ho vanga per seguire uomini come loro. / Tra il mio pollice e l’indice riposa / la tozza penna. / Scaverò con questa». Si trattava di affondare la lama della poesia dentro le zolle di realtà. E a Heaney riesce la magia, che è di pochi, di scavare nel giardino di casa – l’Irlanda con i suoi suoni e colori, miti ancestrali e cattolicesimo – per estrarre pepite di un tesoro universale. Così anche i riferimenti al conflitto regionalissimo nell’Ulster diventano un bacino a cui ognuno può attingere per fare i conti con la propria guerra pubblica, privata o interiore.

Nel discorso per il Nobel spiega che in nome della morale cristiana era portato a deplorare le atrocità commesse dall’IRA ma, come “irlandese puro”, appartenente alla minoranza cattolica, era cresciuto nella consapevolezza delle ingiustizie subite e inorridiva davanti alla barbarie dell’esercito britannico della Bloody Sunday di Derry, nel 1972. E aggiunge: «Ciò che desideravo era, più che la stabilità, una fuga attiva dalle sabbie mobili del relativismo, un modo per dare credito alla poesia senza ansie e senza scuse». E a tal proposito cita un verso del poeta americano Archibald MacLeish: «Una poesia deve essere pari a: / Non una verità». Emily Dickinson direbbe: «Tell all the truth but tell it slant», di’ tutta la verità, ma dilla in modo obliquo. Il rapporto tra realtà, poesia e verità è un triangolo dinamico, i cui lati si allungano e si accorciano e quasi mai i tre vertici giacciono sulla stessa retta. Eppure, spiega Heaney, ci sono momenti in cui subentra, nel poeta, un bisogno più profondo «quando vogliamo che la poesia non solo sia piacevolmente appropriata, ma anche pressantemente saggia, non solo una sorprendente variazione eseguita sullo strumento-mondo, ma una riaccordatura del mondo stesso».

Può davvero l’arte fare qualcosa per aggiustare il mondo? «A volte è difficile soffocare il pensiero che, come maestra di vita, la storia sia alla pari di un mattatoio», dice Heaney. Ma in una poesia racconta la leggenda del monaco irlandese san Kevin: «Il santo è inginocchiato, le braccia allargate, dentro / la cella, ma la cella è stretta, / così un palmo levato esce dalla finestra, / rigido come una trave, quando una merla vi si posa, / depone le uova e comincia a covarle (…) pietà lo muove: ora dovrà tenere la mano / Come un ramo a sole e pioggia per settimane / finché i piccoli schiusi sapranno volare (…). Solo e specchiato nel fiume fondo dell’amore, / “Opera e non chiedere premio” prega, / una preghiera tutta corporale / perché lui ha dimenticato se stesso, dimenticato l’uccello / e in riva al fiume ha dimenticato il nome del fiume».

Per il poeta quella di san Kevin è una visione realistica di quanto succede nella vita. Di chi sa bene «che ci sarà un altro massacro sul ciglio della strada», ma dà anche credito alla stretta di mano. È uno sguardo che «soddisfa due esigenze contraddittorie che la coscienza prova in momenti di estrema crisi: il bisogno, da un lato, di dire verità che saranno dure e punitive e quello, dall’altro, di non indurire la mente al punto da farle rinnegare il proprio desiderio di dolcezza e di fiducia». Sono molti i momenti in cui la poesia di Heaney assomiglia a una doccia scozzese, che prima tortura per gli sbalzi di temperatura e poi lascia sulle membra una sensazione di sollievo. Come quando parla dell’esperienza nella metropolitana di Londra in District and Circle: «E così essere portato notte e giorno con loro / attraverso una terra a gallerie, unico relitto / di tutto ciò cui appartenni, scagliato in avanti, / riflesso in un finestrino reso specchio da piangenti mura sventrate di roccia. / Illuminati d’intermittenza».

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Ma c’è un altro elemento con cui la poesia ha accesso alla verità, secondo Heaney. Un fattore che sembra contraddire la massima di Giampiero Neri di cui abbiamo detto: «Nella poesia lirica, l’aderenza al vero diventa riconoscibile come accento di verità intrinseco al mezzo poetico».

Come poeta tutti i suoi sforzi sono stati tesi verso «una musica, verso l’armonia e la stabilità conferita da un ordinamento di suoni musicalmente appagante». La forma – il ritmo, l’alternanza di suoni simili e diversi, le pause di silenzio – è un elemento fondamentale del potere della poesia, che è quello di «persuadere quella parte vulnerabile della nostra coscienza di essere nel giusto a dispetto di tutte le manifeste ingiustizie che le sono intorno, il potere di ricordarci che siamo cacciatori e raccoglitori di valori, e che anche le nostre solitudini e angosce sono degne di credito, in quanto anch’esse testimonianza della nostra autentica umanità».