Pippo Molino (Foto Luca Fiammenghi /Fraternità CL)

La voce di una storia

Pippo Molino, musicista e compositore, racconta in un libro il canto nel movimento e ne parla su "Tracce" di Gennaio: «Nasce in una comunità viva, è proporzionale all’esperienza che si fa. E un coro è carità pura»
Paola Ronconi

Una cosa è certa: nel movimento di CL si canta. Quando ci sono gli Esercizi spirituali, durante la liturgia, prima di un incontro. Ma anche in gita, o in una serata tra amici. È forse una delle espressioni più caratteristiche. «È una sensibilità, una educazione fin dall’inizio», spiega Pippo Molino, musicista e compositore, che dagli anni Ottanta è responsabile del canto in CL, in particolare della musica corale. Oggi è affiancato da Carlo Carabelli, che, oltre alla responsabilità generale dei canti, segue gli universitari, mentre lui continua a dirigere il coro degli adulti. Recentemente ha pubblicato Un’altra musica (Volontè&Co edizioni), un libro in cui racconta la storia del canto in CL, le sue dimensioni principali e propone esempi di repertorio con spartiti e, attraverso QRcode, rimandi ad audio da ascoltare. «Se in CL si canta bene, non è innanzitutto merito di qualcuno. Ma è una storia iniziata con don Giussani e che continua a essere viva», spiega. «“Perché tanta musica in un libro?”, mi hanno chiesto. Prova ad ascoltare!». E a leggere che cosa, lungo gli anni, diceva lo stesso Giussani riguardo la musica e il cantare.

Perché la gente rimane colpita dai canti del movimento? Anche all’interno della Chiesa…
Rimane colpita tout court, a volte perfino durante una gita, cioè non per forza in chiesa. Rimane colpita perché oggi, in generale, non si canta più insieme. Una volta, era il 2004, don Giussani mi disse: «Pippo, non si canta più!». Questo già allora era il suo cruccio, che non si cantasse. Un tempo non era così: per esempio si cantava anche lavorando. In ambienti ecclesiali tanti riconoscono che «come canta CL non canta nessuno». Ma, ripeto, non per merito di qualcuno.

Perché è diventata una cosa così rara cantare e cantare bene?
Certamente il canto è proporzionale all’esperienza che si fa. Tu senti cantare bene in chiesa dove c’è una comunità cristiana viva, o dove ci sono monaci e monache che credono. Dove c’è la fede c’è il canto, una umanità vera. E parliamo di canto del popolo, non tanto della genialità singola. Poi da un popolo viene fuori il singolo, il solista. I nostri cantautori più famosi sono venuti fuori da un popolo. Prima Adriana Mascagni, che dirigeva anche il coro. Poi Claudio Chieffo, con canzoni importanti. E tanti altri.

Quindi è stata una conseguenza che loro si mettessero a scrivere canti…
Certo! Una volta qualcuno disse che il canto nel movimento è nato con i suoi cantautori. Don Giussani sentì queste parole e corresse: «Alla prima messa di GS, la prima in assoluto: lì è nato il canto del movimento… L’inizio del canto del movimento è l’inizio del movimento. Non c’è differenza... Si appartiene e sorge il canto».

Com’era lavorare con don Giussani? Cosa chiedeva?
Da ragazzo, al liceo Berchet, o in Università Cattolica, l’ho visto sempre da vicino, occupandomi di musica. Nell’86, quasi quarantenne, ho deciso di prendere in mano il coro. E nel frattempo, in quegli anni, è diventata un’amicizia sempre più libera: con lui contava moltissimo la libertà, tanto che lui non mi ha mai chiesto di prendermi questa responsabilità, mi sono deciso io, con molta lentezza rispetto alla mia storia. Lavorare con lui era soprattutto una grande libertà. Diceva: «È carità pura. Il coro, il canto, è il servizio più utile e gratuito per la comunità. Se una comunità non ha coro, vuol dire che non ha passione». Osservazioni che quando le rileggo, capisco che non sono ancora al punto che lui richiamava. È un richiamo adesso. E mi chiedo sempre: «Ma io come faccio questo servizio?».

Come vengono scelti i canti nei momenti forti del movimento?
La scelta dei canti è sempre stata di don Giussani, noi facevamo proposte, e lui ha sempre detto che è chi dirige il movimento a scegliere i canti. È stato così con don Julián Carrón e ora con Davide Prosperi: chi guida il gesto decide. Appunto perché il canto è un aspetto fondamentale. Una volta eravamo agli Esercizi del Clu. Canto nuovo da imparare, Estote fortes in bello. Lo provo. Poi sento che è arrivato don Giussani e gli chiedo cosa ne pensa. «Bello, bello. Se posso dire: un po’ colloso». Ecco, capii che c’era ancora da lavorare e lo rimandammo. Lui aveva questo orecchio. Non lo dico per adularlo, ma era stato educato fin da giovane. Anche nel libro riprendo quel brano dove Giussani racconta che suo papà sceglieva di andare a Messa dove sapeva esserci un coro. Al piccolo Luigi la polifonia appariva una confusione di voci. Finché una volta ascoltò il Caligaverunt, uno dei Responsori del Venerdì Santo, di De Victoria: «E da allora», dice, «mi sono innamorato di De Victoria e di tutta la polifonia». Era la vita, ciò che gli accadeva che lo faceva appassionare a questo o a quello. Tutte le sue osservazioni, se ci si pensa, non erano mai accanto alle cose che si vivono, ma dentro, quindi noi siamo aiutati ora da quelle sue parole. Un altro esempio: Giovedì Santo del 1994, Certosa di Pavia. Prove del coro, lui arriva, ci guarda e dice: «Fate con sentimento questo servizio, vuol dire pronunciare le parole come vostre. Anche se adesso non è ancora vero, voi Lo fate riaccadere. Vi imponete alla realtà opaca». Non è un discorso spirituale, è dentro il canto. Entusiasmante!

«Agli Esercizi della Fraternità fare un assolo non “di fronte”, ma “per” sedicimila persone!... Voi esprimete questi sedicimila, la loro coscienza, siete la voce di un popolo, di un destino», diceva nel 1994. Come si impara?
Si impara immedesimandosi con l’esperienza del movimento: è vero oggi come era vero con lui. Grazie al cielo, andiamo avanti in questa sensibilità. La gente viene nel nostro coro per l’esperienza che si fa. Non semplicemente per cantare. Carlo e io facciamo sempre le audizioni. Per entrare nel coro degli universitari, l’ultima volta hanno fatto domanda 120 persone. Quindi non è questione di “quando c’era Giussani”, ma adesso! Sempre nel 1994, diceva: «Se vi posso dare un consiglio: non siate troppo preoccupati di voi stessi, della vostra capacità di esprimervi. Il contenuto della preoccupazione non può essere l’espressione di sé, ma l’esprimere la coscienza di questo popolo. Per questo il coro, il canto, è il servizio più utile e gratuito per la comunità». C’è un modo di cantare che è diverso se è immedesimato, potremmo dire se è religioso. Il titolo del mio libro, ben lungi dall’essere aristocratico, viene dal modo di parlare popolare, in milanese, “l’è n’altra müsica”, cioè nel canto del movimento c’è qualcosa di più, che non è merito nostro.

Nel libro tu parli di “modalità espressiva” ed elenchi una serie di indicazioni pratiche. Come sono nate?
Con l’uso, gradualmente. Quando ero al Berchet ragazzino, dicevamo le Lodi ma senza il tono retto. Man mano, nel tempo, con i Memores Domini Giussani ha visto che il tono retto, ripreso dal canto gregoriano, aiutava ed era più ordinato. E la difficoltà nel tenere la nota sottolinea la vigilanza che bisogna avere pregando. Quando si dice che è una esperienza lo si vede anche in questo, nel fatto che nel tempo si sono capite molte cose.

Quindi la recita delle Ore è un canto?
Non c’è una netta linea di demarcazione tra cosa sia canto e cosa no. Per esempio, i Salmi di Gelinau, che piacevano molto a Giussani, musicano il salmo richiamando al tono retto, sono molto sillabati.

Un altro capitolo: la varietà dei nostri canti. Cosa accomuna tutti questi generi?
La varietà viene dalla vita e dalla gradualità di una storia. Giussani ha iniziato con Vero amor è Gesù, con O cor soave (che è una lauda filippina imparata in seminario). O sono canti da cantare insieme o da ascoltare. Ha iniziato con questi, poi ha preso dei canti scout, come La traccia o l’Inno alle scolte: l’interezza dell’uomo medievale che pregava per la salvezza della città e della sua anima. Seguiva ciò che accadeva: una vita.

Poi arrivano i cantautori…
Oltre a Mascagni e Chieffo, gente come Roscio, la Valmaggi, fino ad arrivare a Riro Maniscalco o a don Anastasio (che non ho fatto in tempo a considerare nel libro). E poi il gregoriano. Tutti i Papi ne hanno parlato, dicendo che è il canto della Chiesa. Ma oggi chi canta il gregoriano? O il canto russo popolare, come Il campanello… La maggior parte delle scelte derivano da passioni di Giussani. E poi da incontri: per il canto napoletano è stato così.

In CL ci sono momenti più strutturati, ma anche il cantare insieme in vacanza ha la sua importanza…
Certo. È importante che la normalità della vita abbia il canto. Un modo prezioso di stare insieme. Di ascoltarsi. È una educazione. Oppure vieni a sapere che a Taiwan, in un mondo totalmente diverso dal nostro, cantano i nostri canti. O gli africani che qualche anno fa hanno cantato i canti alpini al Meeting di Rimini: li hanno cantati bene. Si capiva che la voce era diversa, ma erano immedesimati. Una meraviglia!

LEGGI ANCHE - Ecologia integrale. Contro l'individualismo

Torniamo alla domanda di prima: cosa unisce tutti questi canti?
Il merito sta nel non staccare la spina dal metodo di don Giussani. Quando cerchiamo le canzoni, quando chiediamo ai nostri cantori di fare proposte, è un lavoro enorme. Per esempio, Lucio Dalla ha una profondità notevole, però è difficilissimo da cantare insieme, non è facile riuscirci.

Si ascolta un solista, un coro, e viene voglia di cantare. La passione è contagiosa?
Assolutamente. Ed educa. Quante volte Giussani ci ha detto che si capisce molto più dal canto che da tanti ragionamenti. Il canto nei nostri incontri ha la stessa importanza della parola di chi parla e spesso viene capito prima il concetto che si vuol comunicare.

Sant’Agostino, citato anche nel libro, diceva che «chi canta prega due volte».
Il canto fatto bene genera il silenzio. Nella Chiesa è così. Lui, Agostino, viveva questa cosa. E anche noi viviamo questa grazia.