Il Padiglione delle Nazioni ai Giardini della Biennale durante l’evento dedicato all’architettura nel 2018 (Ansa/Andrea Merola)

Venezia. Il "tentativo" di Francesco alla Biennale

«Fare pace» e riavvicinarsi al mondo dell'arte contemporanea. Un cammino che la Santa Sede ha imboccato più di cinquant'anni fa con Paolo VI. E che porterà Papa Bergoglio in Laguna il 26 aprile
Luca Fiore

La Biennale di Venezia è probabilmente l’evento più importante del mondo dell’arte contemporanea a livello mondiale. Artisti, critici, galleristi, direttori di musei e di fondazioni, giornalisti di settore: tutti si fermano e guardano che cosa accade nella città di San Marco. Come succede, per il cinema e per la musica, con gli Oscar o i Grammy. Chi espone a Venezia è sotto i riflettori. Non si tratta soltanto di visibilità o successo: la Biennale è una sorta di sismografo della contemporaneità. Chi visita la mostra principale e i padiglioni nazionali lo fa perché, in fondo, vuole capire come gli artisti interpretano e vivono il presente. Non farà eccezione neanche il Papa: la sua presenza il 28 aprile in Laguna sarà un segno di curiosità innanzitutto, ma anche di desiderio di essere presente là dove le cose accadono, muovendosi verso gli uomini, senza aspettare che le persone vengano a lui. È una visita che è, di per sé, il manifesto di una posizione culturale.

Francesco si recherà nella città Serenissima e prenderà parte alla manifestazione, primo Pontefice della storia a farlo, visitando il Padiglione della Santa Sede, che verrà allestito al carcere femminile della Giudecca. Quella promossa dal cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, è una delle 88 presenze nazionali che convivono con la grande mostra principale di Adriano Pedrosa, curatore brasiliano, che si intitolerà “Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere” e che si snoderà, come ogni due anni, negli spazi dei Giardini della Biennale e in quelli delle Corderie dell’Arsenale. Le presenze nazionali sono chiamate a scegliere uno o più artisti che sono considerati rappresentativi di ciò che accade nel singolo Paese.

La Santa Sede, come è evidente, è una presenza anomala: porta l’eredità del più grande committente d’arte della storia dell’umanità, ma sul suo territorio non vive neanche un artista. Si tratta della quinta volta che il Vaticano è presente alla Biennale. La prima fu nel 2013, per l’insistenza del cardinale Gianfranco Ravasi, allora Presidente del Pontificio consiglio della cultura, poi nel 2015. Nel 2018 e nel 2023, invece, la presenza fu alla Biennale di architettura. Quest’anno il cardinale Tolentino ha affidato il padiglione a due curatori di primo piano: Chiara Parisi, direttrice del Centre Pompidou-Metz, e Bruno Racine, direttore di Palazzo Grassi - Punta della Dogana. La mostra avrà per titolo “Con i miei occhi” e, come si diceva, sarà allestita in un luogo simbolico: il carcere femminile della Giudecca. La casa di reclusione, infatti, è ospitata negli edifici di un antico convento di monache, nato per ospitare le prostitute “convertite” che, a causa della decisione, erano diventate indigenti. Gli artisti annunciati sono: Maurizio Cattelan (l’artista italiano vivente più conosciuto al mondo a cui piace essere controverso), Bintou Dembélé (ballerino e coreografo, pioniere della danza hip hop), Simone Fattal (artista e scrittrice nata in Siria e cresciuta in Francia), Claire Fontaine (collettivo artistico formato da James Thornhill e Fulvia Carnevale), Sonia Gomes (artista brasiliana, nota per il lavoro con i tessuti), Corita Kent (leggendaria suora artista di Los Angeles che segnò la stagione della Pop Art), Marco Perego & Zoe Saldana (lui regista italiano, lei star di Hollywood), Claire Tabouret (pittrice francese con sede a Los Angeles). Come è accaduto per le altre presenze alla Biennale, non si tratterà di una mostra di “arte liturgica”. Non è questo il senso della presenza a Venezia. Ma sarà una nuova occasione di dialogo, prima ancora che con il pubblico, con gli artisti.

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L’iniziativa, infatti, è pensata come una tappa del lungo percorso di ri-avvicinamento della Chiesa con il mondo dell’arte contemporanea, che inizia dall’indimenticabile discorso che Paolo VI fece agli artisti nel 1964: «E allora il linguaggio vostro per il nostro mondo è stato docile, sì, ma quasi legato, stentato, incapace di trovare la sua libera voce. E noi abbiamo sentito allora l’insoddisfazione di questa espressione artistica. E - faremo il confiteor completo, stamattina, almeno qui - vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’“oleografia", all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate; e siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l’arte e la bellezza e - ciò che è peggio per noi - il culto di Dio sono stati male serviti. Rifacciamo la pace? quest’oggi? Qui? Vogliamo ritornare amici?». Fu un nuovo inizio, che è continuato anche con tutti gli altri Papi: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e, appunto, Francesco. Tutti hanno cercato il dialogo con i grandi artisti. Un dialogo che non poteva rifarsi a un passato glorioso, ma rinascere nel presente alle condizioni del presente. Senza correre subito, per forza, a commissionare Chiese, palazzi, nuove pale d’altare, ma riattivare una relazione, almeno di stima reciproca, sperando che possa diventare amicizia tra persone.

Come ogni mostra, anche quella del Padiglione della Santa Sede andrà giudicata andandola a vedere, tendendo conto che si tratta di un tentativo dentro un percorso. Nessun può sapere a priori a che cosa porterà questo itinerario. Ed è giusto così. Nella vita della Chiesa occorre essere pronti ad accogliere e contemplare le sorprese di Dio.