Tre amiche della comunità di CL di Taiwan.

Come gli Atti degli apostoli

Fang-Cong ha scoperto che c’è la Risurrezione. Bo-Yue che è possibile il perdono... Viaggio a Taiwan, nel «continente che non conosce Cristo». Ma dove accadono gli stessi fatti di duemila anni fa (da Tracce, ottobre 2015)
Davide Perillo

È arrivato un pomeriggio tardi. Il cancello era chiuso, dietro le ultime bancarelle che sbaraccavano dal mercato. Ma l’insegna sotto la croce lo aveva colpito: “Sala del Signore del Cielo”, il nome che Matteo Ricci, secoli fa, ha trovato per dire “chiesa”. Fang-Cong era stato battezzato da bambino, chissà come, ma non ricordava nulla di Gesù. E aveva una domanda, acuta: suo fratello era morto pochi giorni prima, e nessuno sapeva dirgli che fine avesse fatto, se è davvero destino che tutto scompaia in nulla. «Ha suonato, è entrato, ci siamo messi a parlare». Mezz’ora, non di più, racconta don Emanuele Angiola: «Ma per la prima volta ha sentito parlare di Risurrezione e vita eterna». Da quella sera, non se n’è più andato. «Torna tutti i giorni e facciamo due chiacchiere».
Adesso è lì, seduto al tavolo largo in una sala della parrocchia di San Francesco Saverio. Camicia a quadri bianchi e neri, una ventina di facce attorno a lui. E il dito che scorre sulla fotocopia, a seguire gli ideogrammi di Tracce d’esperienza cristiana, capitolo su «L’incontro con Cristo». «Mi sono sentito accolto», dice Fang. Come Helga, che a questo tavolo è arrivata dopo un percorso durato anni «dalle religioni orientali, che non volevo tradire perché sono le mie, ma non mi bastavano: poi ho fatto degli incontri...». O Giacomo, che ieri ti diceva di aver visto un cristiano per la prima volta al liceo «e lì ho scoperto la Bibbia e una strada per cercare risposte alla mia domanda di senso». O Bo-Yue, che ha incontrato il cristianesimo studiando storia e «come prima cosa ha chiesto di confessarsi, ora che sa che esiste il perdono».
Benvenuti negli Atti degli apostoli, versione Duemila. Non è Gerusalemme o Corinto, ma Taiwan, la grande isola al largo della Cina: 23,4 milioni di abitanti e più di 7 vivono qui a Taipei, la capitale. A vederla dalla cima del Taipei101, il grattacielo che taglia la skyline con suoi i 449 metri di altezza, è un mare senza fine di case e cemento. Da sotto, un flusso altrettanto infinito di vite e di traffico, microbotteghe e scritte piazzate ovunque, come a ricordarti a ogni passo che sei altrove. Altra lingua, altro mondo. Altre fedi. Gesù è uno sconosciuto, o quasi. Certo, ci sono i cristiani: meno di un milione, un terzo dei quali cattolici (l’1,3% della popolazione). Ma la stragrande maggioranza non l’ha sentito nemmeno nominare. Vederlo agire qui è come stare nella Palestina di duemila anni fa.

Nel Paese a maggioranza buddista

Le scale di Montale.
CL da queste parti ha già una certa storia. Un paio di famiglie arrivate per lavoro, a fine anni Novanta. Poi, i sacerdoti della san Carlo. Volevano esserci, «nel continente che non conosce ancora Cristo», come lo chiama don Paolo Costa, sbarcato a Taipei nel 2002: «Era anche un modo per allargare fino in fondo l’orizzonte di tutta la Fraternità». Tanta gavetta a studiare la lingua, poi la prima parrocchia (San Francesco Saverio, a Tai Shan). Nel 2008 la seconda, San Paolo. Oggi i preti sono in tre: con Costa e Angiola c’è don Donato Contuzzi. I primi due sono parroci, il terzo è responsabile del movimento. Tutti insegnano all’università Fu Jen.
È la Cattolica di Taipei, ha 26mila studenti. Nel piazzale, tra banchetti che invitano a una festa e gruppi di ragazzi a passeggio ordinati, una croce di pietra e quattro ideogrammi: «Verità, bontà, bellezza e santità», traduce don Paolo: «Ecco, la sfida è portarli fin lì, a scoprire queste cose». Lui insegna italiano. «Non lo studiano in molti e spesso ci arrivano perché non hanno voti abbastanza alti da potersi scegliere le materie». Un caso, più o meno. Ma tanti hanno incontrato Cristo così.
A lezione, oggi, c’è una dozzina di ragazzi. Qualcun altro arriva alla spicciolata, con un panino in mano. Tutto molto informale. Si fa conversazione: due studentesse presentano un lavoro sui vulcani, si dialoga, si insegnano vocaboli e grammatica. «Ogni tanto parlo della Bibbia, faccio vedere quadri, ascoltiamo musica. Noi siamo educati a vedere Caravaggio e Michelangelo: qui no». Qui, la volta che don Paolo ha letto Montale, «ho sceso, dandoti il braccio, / almeno un milione di scale», e ha parlato della mancanza, «una ragazza si è messa a piangere. Mi sono commosso anche io». Gli succede ancora, mentre lo racconta.
Gran parte della vita del movimento a Taiwan è fiorita tra queste aule. Qualche studente incuriosito da quegli strani shén fù, i preti. Qualche cena, gli incontri. Fino alla svolta cinque anni fa, quando un gruppetto si è aggregato ai parrocchiani per un viaggio in Italia, e al Meeting. «Molti di loro lì hanno scoperto la fede», racconta don Donato: «Qualcuno ha chiesto il Battesimo, altri ora sono nella fraternità».
Come Emilia, che in quel viaggio non c’era, ma in qualche modo gli deve tutto. Anche lei studiava italiano alla Fu Jen. «Vado su Facebook, e trovo le foto di certi compagni in gita in Italia. Avevano sorrisi bellissimi. Mi sono detta: devo capire il perché. E sono andata a cercarli». Ha conosciuto don Lele Silanos, poi gli altri. Ha seguito le domande che crescevano, man mano: «Ma chi sono questi? Perché sono qui? Qui c’è dentro qualcosa». È arrivata a Cristo. E a dire, con un sorriso stampato in faccia davanti alla torta del suo compleanno: «Qui, quando spegni le candeline, esprimi un desiderio. Io voglio che tutti i miei amici trovino la strada verso Dio».

«Vado su Facebook, e trovo le foto di certi compagni in gita in Italia. Avevano sorrisi bellissimi. Mi sono detta: devo capire il perché. E sono andata a cercarli».

Un contagio. È sempre così, duemila anni fa come oggi. Come tra i ragazzi che in una pausa si trovano in una sala dell’università, per la Scuola di comunità degli studenti, e ora sono tutti presi perché tra qualche giorno c’è la “Settimana italiana” e assieme al vino, all’arte e alle città del Belpaese pensano a come far conoscere i libri di Giussani. O quelli appena più grandi, i “giovani lavoratori”, che si vedono una sera a settimana nell’Università statale. È l’ufficio dove lavora Ning, protestante. Ha incontrato CL a Dublino, l’abbiamo vista il 7 marzo all’Udienza dal Papa. Ora è qui che taglia la pizza per gli amici; quelli che vengono da un po’, come Violetta e Maria Goretti (molti si danno un nome occidentale, appena hanno a che fare con l’italiano, «e io ho scelto la santa»), e quelli arrivati per la prima volta come Cinzia, che lavora in banca ed è qui perché «ho conosciuto Giacomo che era venuto a chiedere una consulenza finanziaria: mi ha colpito, siamo diventati amici, mi ha parlato di questo posto...». C’è anche chi si collega via skype: Ilaria vive a Taichung, 180 chilometri da qui, con il marito e tre bimbi piccoli, ed è un torrente di rapporti, amicizie, incontri. Anche lì, ora, c’è chi si trova tutte le settimane a leggere Il senso religioso.
Si canta Yin Xing De Chi Bang, “ali invisibili”, una canzone popolare («anche in questi momenti di solitudine e tristezza / so che ho ali invisibili che mi danno speranza... Per noi queste ali sono la compagnia», dice Donato). Si parla del Capaneo di Dante, di anarchia e desiderio. Soprattutto, si vive un’amicizia.




Rosario sul balcone.
Identica a quella che vedrai il giorno dopo, a un altro incontro. Basta Alecrim in cinese a commuovere. Ma poi li senti parlare di esperienza, giudizio, ragione. Di cosa serve per «non seguire lo sciame d’api», versione cinese del nostro gregge di pecore. Senti A-Long accorgersi che «nel nostro cuore c’è qualcosa di innato che riconosce la bellezza: nessuno ti dice che un fiore è bello, ma lo puoi scoprire da te». Insomma, vedi don Giussani - e con lui il cristianesimo - farsi spazio in questo altro mondo, tra citazioni del Don Giovanni e un applauso quando A-Mei butta lì che «nella mia vita c’è un grande cambiamento: quando vengo qui vedo una vera liberazione e una vera comunione». «Lele diceva sempre che nel tempo avremmo imparato la bellezza dell’amicizia», ricorda Emilia: «Un po’ alla volta stiamo vedendo che è vero».
«È una vita semplice, ma piena», aveva detto Donato la prima sera. Aveva ragione. I tre preti ti mostrano le parrocchie («il lunedì sera c’è un gruppo che legge la Bibbia, il mercoledì c’è la Legio Mariae...»), raccontano i nuovi incontri («l’anno scorso si sono battezzate una ventina di persone, quasi tutti adulti»). E ti accompagnano alla preghiera con le famiglie. Stasera è a casa di A-Long. Quarto piano, si sale a piedi e si lasciano le scarpe fuori dall’uscio. Due stanze e la cucina, ventilatori a raffica, una parete intera occupata da un acquario, con i pesci da vendere per arrotondare le entrate. E una ventina di persone, forse più, a dire il rosario sul balcone. Dopo, si mangia e si beve. E ci si scambia la vita. Conosci Wen-Meng, ex dj che ora fa il tassista. O Kun-Li, il camionista che la sera in cui Donato arrivò a Taiwan «senza sapere una parola di cinese ed ero solo, perché gli altri preti non c’erano», andò apposta ad invitarlo a cena, a gesti. Ti senti a casa, a diecimila chilometri da casa.

Wen-Meng, ex dj che ora fa il tassista. O Kun-Li, il camionista che la sera in cui Donato arrivò a Taiwan «senza sapere una parola di cinese ed ero solo, perché gli altri preti non c’erano», andò apposta ad invitarlo a cena, a gesti.

Il tiro buono. E si fa più intenso il contraccolpo di quello che hai visto la mattina prima, quando, in una pausa, ti hanno portato al tempio di Long-shan e ne sei uscito con uno struggimento dentro che morde l’anima. Arrivavano sparsi, ognuno con il suo sacchetto della spesa pieno di frutti, pane, pacchi di biscotti. Le offerte da lasciare sul bancone largo, davanti alla cappella principale dove si venera Guan-yin, dea buddhista della misericordia. All’ingresso, un cartello ricorda le istruzioni per la preghiera. Le seguono tutti, in ginocchio davanti all’altare: buttano in terra due legnetti rossi a forma di luna, e aspettano. Se sono caduti nella posizione giusta, vuol dire che il dio accetta di ascoltarti. Se no, riprovi. E ancora. E ancora. Finché anche il secondo tiro è buono, e sai che la divinità risponderà alla tua domanda. Allora ti alzi, ti avvicini a un cesto pieno di bastoni di legno, lunghi e sottili, ne prendi uno a caso, leggi il numero scritto sopra. E vai alla parete in fondo, piena di cassettini numerati. Quello con il tuo numero ha dentro il biglietto con la risposta che attendevi. Intorno, incenso e candele, statue e tempietti più piccoli, ognuno dedicato a una divinità buddhista o tao: quella che può aiutare nei problemi di lavoro, quella per gli studi, quella che proteggerà la famiglia... E folla, dovunque. Un altro mondo. Ma lo stesso cuore, la stessa attesa che il Mistero si faccia amico.
E lo stesso soprassalto quando questo accade e si può scoprire che la vita è altro: può essere ricca e piena, avere altre leggi. La beneficenza, qui, non è sconosciuta. La famiglia conta, il clan - in una cultura impregnata di Confucio - è fondamentale. Ci si aiuta tra parenti e a volte ci si allarga a dare una mano al vicino che ha bisogno. Ma che la carità sia «la legge della vita», come dice don Giussani, è una novità totale. «La caritativa l’abbiamo fatta dall’inizio», spiega don Donato: «Prima aiutavamo i bambini a fare i compiti in parrocchia». Un Portofranco all’orientale. Roba mai vista, in un posto dove chi può i figli li manda al doposcuola a pagamento, perché se non sei abbastanza bravo da superare i test per le scuole migliori, sei tagliato fuori già da piccolo. «Aiutare i bambini mi ricordava com’ero io», dice Renato: «Mi ha fatto tornare all’innocenza che perdi per strada crescendo. Ma ora è anche di più».

La Scuola di comunità a Taiwan

«Ora» è il sabato pomeriggio passato in una casa di riposo. Dalla chiesa, un quarto d’ora a piedi tra il traffico e il caos: si gira dietro un tempietto tao affacciato sul marciapiede e si sbuca in una viuzza più tranquilla. Case e vetrine. Quella che sembra un negozio di casalinghi è l’ospizio. Ci saranno una trentina di anziani dentro, su due piani. Molti su una sedia a rotelle, altri restano a letto.
Nello spazio all’ingresso, ce ne sono una dozzina. Aspettano Donato e i suoi ragazzi. E un pomeriggio di festa semplice: chitarra, canti, compagnia. Ilaria, che viene a Taipei tutti i weekend, balla con la piccola Teresa in braccio, davanti al sorriso senza denti di un’ospite. Un cortocircuito di tenerezza. «Cosa mi porto a casa? L’altro giorno, uscendo dal lavoro, ho visto un papà che accompagnava il figlio a prendere un gelato», racconta Walker: «Un ragazzo grande, ma si vedeva che aveva problemi. Il papà lo aiutava a mangiare. Bastava guardarlo per capire che lo amava senza limiti. Senza condizioni. Mi sono commosso. Perché io voglio amare così. Ecco, la caritativa mi aiuta a questo».

Domande e carbonara.
L’ultima sera c’è una cena a casa dei preti. Hai già il cuore pieno e il taccuino fitto di storie che non riuscirai a raccontare, anche se c’è il web che allarga i confini del giornale. Ma attorno al tavolo c’è la Fraternità. È venuta anche Ning, per la prima volta: «Volevo sapere cosa è». Semplice: è A-Mei, è Julie. È Kun-Li che ti presenta Mu-Dan, la moglie. Sono le domande di Vincenzo sul lavoro e la carbonara di Donato, le battute di don Emanuele e i racconti familiari di Ilaria... È una vita dentro la vita. Come dice Emilia, «è il cristianesimo».