Micol Forti (Catholic Press Photo)

Verso il Meeting. Micol Forti, il compito dell'arte

La mostra a Rimini, le parole dei giovani, il rapporto tra Chiesa e artisti. Parla la direttrice della collezione di arte contemporanea dei Musei Vaticani: «Interessarsi al proprio tempo è dovere di tutti»
Luca Fiore

C’è un poema popolare argentino molto caro a papa Francesco, il Martin Fierro, che a un certo punto recita: «Se cantate, fate in modo / di cantare con sentimento. / Non usate lo strumento / solo per il gusto di parlare / e cercate di cantare / solo ciò che val la pena». Questi versi sono stati citati dallo stesso Pontefice in un messaggio ai giovani del progetto “Manifesto del cambiamento – Parola ai giovani”, promosso dal musicista e cantautore Giovanni Caccamo, allievo e amico di Franco Battiato. In quella pagina, Francesco esorta i giovani a «esprimere parole di cambiamento però in maniera che non sia un semplice cambiamento di parole. Impegnatevi a cambiare la vita delle persone che vi stanno accanto e che hanno bisogno di voi. Questa sarà la prova che volete fare sul serio». E aggiunge una frase di sant’Ignazio di Loyola: «L’amore si deve porre più nei fatti che nelle parole».
Caccamo ha chiesto a studenti, giovani professionisti, artisti, sportivi, operatori del sociale quale fosse la loro “parola del cambiamento”. Ne è nata un’antologia di brevi testi, che vuole essere una bussola per il futuro. “Gratitudine”, “accoglienza”, “esattezza”, “coraggio”, “immersione”, “spargere”, “famiglia”, “ghosting”, “infanzia”, “bellezza”… e tante altre parole-idee che sono una proposta di riflessione e, al tempo stesso, un invito all’azione. Il cantautore ha poi coinvolto nel progetto anche Micol Forti, direttrice della collezione di arte contemporanea dei Musei Vaticani, che ha curato l’aspetto “visivo”. Alcuni di questi testi, infatti, sono stati stampati con la tecnica dei caratteri mobili e consegnati a dodici artisti “over 70” perché creassero delle opere in dialogo con la voce dei giovani. Sono Arnaldo Pomodoro, Fabrizio Plessi, Emilio Isgrò, Ferdinando Scianna, Francesca Cataldi, Giulia Napoleone, Guido Strazza, Mario Ceroli, Michelangelo Pistoletto, Mimmo Paladino, Mimmo Jodice. E Maurizio Cattelan, l’unico “under 70”.
Il progetto è diventato anche una mostra che sarà presentata in anteprima al prossimo Meeting di Rimini, dal titolo "La forma delle parole. I sogni delle giovani generazioni attraverso gli occhi di maestri dell'arte contemporanea". Ne abbiamo parlato con Micol Forti che, da consulente indipendente, ha affiancato Caccamo per la parte artistica.

Come sarà la mostra di Rimini?
Ci siamo immaginati un allestimento suggestivo: una collina con un bosco, dentro la quale compaiono queste dodici carte, tutte dello tesso formato, su cui la giovane stampatrice Loredana Amenta ha impresso altrettanti testi del “Manifesto del cambiamento” usando la sua macchina ottocentesca. Volevamo sottolineare che la parola ha un suo corpo, un suo aspetto materiale e visivo. Questo supporto fisico è stato, a seconda degli artisti, strappato, cancellato, interpolato, immerso nell’acqua o nel catrame. Forse poi le opere – questa è un’idea di Caccamo - faranno altre tappe oltre a Rimini, ma la loro destinazione finale è di essere battute all’asta, il ricavato andrà a costituire un fondo per borse di studio a servizio delle nuove generazioni.

Anche papa Francesco, in qualche modo, si è coinvolto mandando un messaggio.
Il fatto che il Santo Padre abbia accettato non dipende da me: Caccamo ha seguito altri canali. Ma che lui abbia risposto rapidamente e positivamente a questo invito dimostra la straordinaria attenzione che il Santo Padre ha nei confronti di tutti noi, ma soprattutto dei giovani affinché siano parte attiva e propositiva della società. Lui desidera che le nuove generazioni non si lascino trascinare passivamente dal trascorrere del tempo, ma siano attori protagonisti. Francesco sente il potere della giovinezza. Quando ha risposto a questo invito non era ancora stato imbastito il dialogo con gli artisti della generazione dei “nonni”, ma immagino che apprezzerà anche questo, visto quanto ha a cuore il rapporto tra giovani e anziani.

Lei è responsabile della Collezione di Arte contemporanea dei Musei Vaticani. Quello tra Chiesa e artisti viventi è un rapporto non scontato.
Io sono una storica, non una critica militante. Il rapporto costante con gli artisti di oggi richiede competenze specifiche. Dunque il mio rapporto con loro è occasionale, come quella volta che mi occupai di realizzare l’idea del cardinal Gianfranco Ravasi di una mostra per il sessantesimo di sacerdozio di Benedetto XVI, in cui invitammo sessanta artisti a rendergli omaggio. Una grande istituzione come i Musei vaticani o il Louvre, o il Metropolitan di New York, che raccoglie opere che vanno dall’antichità ai giorni nostri non ha né le risorse né gli spazi per seguire la contemporaneità come lo fanno il Moma di New York o il Centre Pompidou di Parigi. Noi manteniamo sempre una distanza storica, anche perché il nostro pubblico ha bisogno di capire ciò che vede in un contesto che è comunque sedimentato storicamente, il che non esclude che questo dialogo deve essere alimentato perché il mandato di Paolo VI, che ha costituito questa collezione, era proprio di non smettere mai di essere una parte attiva della cultura contemporanea.

Perché questo è importante?
Interessarsi al proprio tempo è un dovere di tutti. E quindi occuparsi della cultura, così come delle questioni della politica, della società, delle sofferenze, delle fragilità. Siamo chiamati a seguire e ad essere attenti, curiosi, partecipi.

Non è un mistero, però, che negli ultimi due secoli tra Chiesa e arte il rapporto non è stato semplice.
Sì, anche se secondo me quello che è stato definito un “divorzio” è meno grave di quanto sembri. È un fenomeno che inizia a fine Settecento e che va inserito nel contesto generale del cambiamento del ruolo della Chiesa, lo sviluppo degli imperi, il sorgere del pensiero illuminista… È un processo ormai storicizzato. Tuttavia, se pur difficoltoso, nell’ultimo secolo un dialogo c’è stato. Noi stiamo facendo un discorso sull’arte in generale, ma la relazione è stata possibile anche a livello dell’arte liturgica. Quello delle nuove chiese è un discorso a sé, che meriterebbe un approfondimento, ma io vedo cose molto interessanti. Non solo in Italia, con quello che sta facendo la Cei, ma anche in giro per il mondo.

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Tante volte però i risultati lasciano a desiderare…
Ma c’è sempre stata un’oscillazione della qualità. Noi frequentiamo con piacere chiese storiche, sapendo che sono modeste, mal riuscite o malfunzionanti. Per avere i vertici della piramide è necessaria una base che li sostenga. Occorre fare tanti tentativi. Non è immaginabile che ogni volta venga fuori una Notre Dame du Hout di LeCorbusier o una Cappella di Vence di Matisse. Ma di bellissime chiese ce ne sono. Io, ad esempio, amo molto Santa Maria Madre del Redentore a Tor Bella Monaca a Roma, realizzata negli anni Ottanta dall’architetto Pierluigi Spadolini e dallo scultore Mario Ceroli (tra gli artisti della mostra del Meeting). È potentissima.

Torniamo all’arte non liturgica.
Nel 1973 Paolo VI nel suo discorso per l’inaugurazione della collezione di arte contemporanea dice: «Religiosi siamo tutti, metafisicamente, in qualche misura». E aggiunge: «Esiste ancora, esiste anche in questo nostro arido mondo secolarizzato, e talvolta perfino guasto di profanazioni oscene e blasfeme, una capacità prodigiosa (ecco la meraviglia che andiamo cercando!) di esprimere, oltre l’umano autentico, il religioso, il divino, il cristiano». L’arte è un atto religioso. La creazione è un atto misterioso e gli artisti, quando sono grandi artisti, quando sono artisti potenti e profondi dal punto di vista intellettuale, hanno sempre un dialogo con la trascendenza, anche quando è loro volontà non averlo. Un artista non credente, agnostico, comunista come è stato Pablo Picasso realizza un quadro come Guernica che è un quadro davanti al quale ci si potrebbe inginocchiare. È un urlo contro il dolore dell’uomo che abbatte l’uomo, è una tragicità tutta contrappunta da elementi che vengono dalla tradizione dell’iconografia cristiana: la donna che alza le braccia al cielo, il figlio squartato, il tema della strage degli innocenti, la crocefissione… Anche se lui consapevolmente rivendicava il proprio agnosticismo, o comunque la contrapposizione nei confronti di qualunque forma religiosa, ha prodotto opere che possono nutrire chi è religioso.

Ma a volte non è semplice capire queste opere.
Paul Valéry diceva: noi vediamo solo quello che conosciamo. Noi spettatori tendiamo ad essere pigri, ci basiamo su schemi e tendiamo a riconoscere ciò che c’è già nella nostra testa. Serve curiosità, ma anche disciplina. E la disponibilità a conoscere qualcosa che non ti assomiglia.

E perché questo è un valore?
Dovrebbe essere proprio delle giovani generazioni: conoscere l’universo, conoscere l’altro da te. Si può insegnare, si può educare a questo. La scuola dovrebbe avere un ruolo fondamentale, con la famiglia. Ma anche la Chiesa deve educare a questo ed è importante che si costruiscano nuove chiese. È un percorso, non obbligatorio, per carità. Ma io sono convinta che la curiosità aumenti con l’età. Anche la curiosità si può imparare. Va sollecitata. Questo è il compito di chi fa giornalismo, cultura e anche politica.