Rimini, Bruno Corà parla alla mostra dedicata ad Alberto Burri (Archivio Meeting)

Alberto Burri. Non essere mai fermi

Per la prima volta al Meeting, parla Bruno Corà, presidente della Fondazione intitolata al grande artista a cui era dedicata una delle mostre più visitate a Rimini
Maria Acqua Simi

Bruno Corà, Roma, classe 1942, è un noto critico e storico dell’arte, presidente della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello. Lo incontriamo su una panchina colorata nel padiglione che al Meeting di Rimini ospita la mostra “Burri. Forma spazio equilibrio”. Di fronte a noi la più grande tela mai realizzata dal Maestro Alberto Burri: Sacco, 1969. È stato ideato e realizzato per il fondale del primo atto del dramma teatrale Avventura di un povero cristiano, tratto dal romanzo di Ignazio Silone. Attorno all’imponente opera si snoda un percorso studiato nei minimi dettagli per far conoscere al pubblico della kermesse riminese questo grande outsider della pittura italiana e internazionale. Lo sguardo di Corà però non è catturato dalla mostra, che conosce a fondo, quanto piuttosto dai ragazzi che si sono messi anima e corpo a presentarla. E dalla moltitudine di gente, di ogni età, che nel 2023 «è ancora capace di ascoltare e guardare». L’intervista comincia ma di Burri (spoiler) si parlerà pochissimo.

È la sua prima volta al Meeting. Impressioni a caldo?
La prima cosa che mi ha colpito è la quantità di gente. Quando alla mattina la Fiera apre, vedere migliaia di persone che si riversano nei padiglioni e alle mostre non è cosa comune. La seconda che ho osservato è che nei luoghi dove sono stati preparati degli incontri con l’arte, come con Burri, c’è un afflusso molto alto di persone veramente interessate. Ci sono anche tanti giovani che vengono ad ascoltare questi ragazzi che fanno le guide: sono volontari che si sono preparati, si sono documentati per poter spiegare chi fosse un’artista come Burri. Ogni turno della mostra conta almeno cinquanta persone e i turni sono continui: significa che in un giorno oltre un migliaio di visitatori passa di qui. E questo mi impressiona perché non è una cosa frequente per una mostra d’arte.

Non se l’aspettava…
No. E aggiungo una cosa: è vero che non sempre il numero equivale alla qualità, ma in questo caso l’attenzione che io osservo da parte dei visitatori, la permanenza dentro questi gruppi per mezz’ora senza che nessuno si allontani mai, l’ascolto continuo, il silenzio che c’è intorno alla guida… Tutto questo è motivo di sorpresa, di riflessione, perché è quello che si trova magari in un’aula universitaria, in determinati ambienti dove specificatamente la cultura trova sede. Il Meeting ha questo aspetto: è fortemente culturale. Anche perché gli argomenti che vengono trattati sono di carattere scientifico, culturale, politico, di varia natura, produttivo oppure anche sociologico e questo ne fa un luogo particolare.

Com’è stato lavorare a questa mostra?
Il lavoro è stato complesso perché abbiamo pensato di sintetizzare il personaggio, l’arte di Burri, la sua biografia, le sue opere in maniera essenziale: un capolavoro unico, il Sacco appunto, e poi alcune opere di carattere multiplo; le opere grafiche - che sono molto interessanti per il grande pubblico perché rivelano tanti aspetti della vita e dell’attività di Burri -; e poi un congruo apparato comunicativo audiovisivo, fatto di proiezioni, filmati, fotografie che danno conto dell’esperienza dell’artista nella sua totalità.

Faccio un passo indietro: lei come è arrivato a seguire la Fondazione?
Dietro alla mia attuale responsabilità come presidente della Fondazione Burri ci sono 50 anni di lavoro. Ho iniziato la mia attività di critico-storico dell’arte nel 1970. Dopo gli studi ho svolto un’attività militante: ho vissuto con gli artisti, ho visitato i loro studi, ho dormito, mangiato, viaggiato con loro. E ho curato molte loro mostre. Erano artisti internazionali: tedeschi, francesi, inglesi, italiani, giapponesi, cinesi, africani… Questo è stata la mia vita. Per cui non saprei dire un momento, un istante, un giorno, una notte che io non abbia fatto questo.

L’inizio della sua passione per l’arte, però, se lo ricorda?
Comincia quando avevo i calzoni corti. A dodici anni avevo già interesse per l’arte, perché vivevo a Roma, una città dove ovunque cammini c’è una pietra che ti parla. All’epoca era quasi diventato un gioco: io e alcuni amici camminavamo per una decina di chilometri, perché abitavamo in periferia, e andavamo fino in centro dove c’erano le mostre d’arte. Lì facevamo il gioco di riconoscere gli artisti senza guardare i nomi dei quadri. Quindi è iniziata come un’esperienza di gioco, che in fondo è sempre la migliore, perché nel gioco si imparano molte cose. Poi è diventato un interesse più profondo, centrale. Sempre però attraverso l’incontro con dei maestri. In arte è importante fare l’incontro con dei maestri: sono quelli che ti rendono partecipe dei segreti, che ti comunicano le cose elementari ma anche salienti, e questo ti aiuta nel cammino. Perché tiene viva la curiosità. È una iniziazione, quella dell’arte. I maestri sono importanti. Non ne ho avuto solo uno, ma diversi. E anche oggi continuo ad avere maestri, soprattutto incontrandoli nella lettura, nello studio continuo delle loro opere.

A Roma lei inciampava nell’arte, letteralmente, ma se penso ai ragazzini di oggi, che sono sempre con il telefono in mano, mi chiedo se qualcuno di loro abbia ancora la capacità di osservare e guardare il mondo intorno come capitava a lei.
Anche se è vero che guardano sempre il telefonino - e la cosa certamente non mi lascia indifferente, anzi mi turba - io ho un’immensa fiducia nei giovani. Un’immensa fiducia. Non potrei non averla, sarei stolto, perché sono loro il futuro. Anzi sono già il presente. Sono loro la storia, per cui io vivo e guardo la storia mentre si fa, mentre accade, così come la vivevo e la guardavo quando ero giovane. Bisogna sempre leggere il tempo e l’ora sull’orologio dei giovani, non solo sull’orologio di noi che siamo più anziani. Nell’orologio dei giovani si legge il tempo che sta accadendo e quello che verrà. Qualche volta non si riesce a capire questo nostro tempo, per cui è ancora più necessario guardare i giovani e quindi anche il loro telefonino, perché nel loro telefonino probabilmente c’è un nuovo linguaggio, un nuovo modo di vedere, di ragionare, di pensare. È tutto nuovo, è tutto da capire, da conoscere. Non c’è mai uno stop, una fermata, tutto è in movimento continuo.

Una tensione evolutiva, come direbbe qualcuno…
Io credo a una parola che in questi ultimi anni mi occupa molto e che è anche un programma di lavoro: superamento. Le cose si continuano a superare le une con le altre, è un continuo superamento la realtà, una continua trasformazione, non c’è stop, non c’è sosta e bisogna saper ragionare, riflettere, e meditare anche in questa dinamica continua. La tensione è costante, non c’è stop.

Quando dice “tensione” lo dice in senso positivo? Come un desiderio di andare più in là?
Assolutamente sì, in senso positivo. Anche quando dormiamo siamo vivi, continuiamo a vivere, non c’è stop, non c’è movimento che si arresti. E probabilmente anche dopo che saremo morti sarà così. Che le cose siano ferme, finite, è un’idea sbagliata. Non possiamo fermarci, fosse solo perché siamo sopra un veicolo che va a migliaia di chilometri all’ora nello spazio, che non si ferma mai. Si chiama pianeta Terra.

Torniamo su Burri. È un compito importante quello di custodire la sua memoria, ma allo stesso tempo quella tensione di cui parlava. Come si fa?
È una responsabilità grande perché anche la figura di questo artista è grande. In qualche modo, siamo quasi naturalmente preparati ad affrontare le cose, perché siamo anziani, ormai abbiamo visto tutto quello che più o meno c’era da vedere. Però, l’esperienza è sempre aperta, perché l’arte non finisce mai. Cerco di spiegarmi: da un lato è necessario stare attenti alla realtà mentre accade, dall’altro tutto ciò che è successo prima lo conosciamo e quindi lo possiamo in qualche modo “gestire”. Non solo: lo possiamo anche comunicare, trasmettere, possiamo rifletterci sopra, cambiare anche opinione, perché le opinioni vanno anche cambiate quando uno fa un errore.

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Lei ne ha cambiate?
Sì, certo. Ma non solo io, anche i maggiori critici dell’arte cambiano opinione, perché il punto di vista cambia nella storia, è l’arte stessa che ti induce a dover cambiare. Un esempio calzante è proprio quello di Burri: lui ha utilizzato materiali diversi e spesso è stato ritenuto proprio “l’artista dei materiali”. Ma lui usava la materia in sé, come "mezzo" per fare pittura: il catrame come catrame, la plastica come plastica. Oggi noi sappiamo, perché ce lo dice la fisica quantistica, che né il catrame, né la plastica, né il legno, né il ferro… niente è solo massa, ma è entità molecolare, atomica, particellare. Quindi la materia non esiste come blocco. Allora bisogna iniziare a guardare le opere in un altro modo da come le guardavamo cinquant'anni fa. Lo sguardo cambia perché oggi cambiano anche i mezzi che abbiamo a disposizione: per esempio, se uno guarda un quadro dentro a un telefonino quello non è il quadro, è la riproduzione di un’immagine, oltretutto riprodotta luminosamente, non con la materia pittorica, quindi è tutta un’altra roba, capisce? Bisogna cambiare continuamente punto di vista.

Non essere mai fermi.
Mai. Fa girare un po’ la testa, ma ne vale la pena.