Pancho e Alexander

Ecuador. «Siamo fatti per cose grandi»

Un Paese tra i più complicati dell'America Latina. Assediato da droga, violenze e crisi economica. Dove la speranza non smette di alimentare il cuore di tanti. Le storie di Isabel Maria, Pancho e Alexander
Maria Acqua Simi

Isabel Maria, Pancho e Alexander sono nati e cresciuti in Ecuador, Paese sudamericano che prende il nome dall’Equatore e che confina con Perù e Colombia. A lungo colonia spagnola, indipendente dal 1830, il Paese è oggi uno tra i più violenti e complicati dell’America Latina. Questi tre amici, che condividono l’esperienza del movimento, vivono dislocati tra la capitale Quito e Guayaquil. Le cose, raccontano, non sono facili da quando i narcos hanno cominciato a farla da padroni in tutto lo Stato. Un tempo territorio solo di passaggio per la coca colombiana, oggi l’Ecuador è infatti diventato un Paese produttore, consumatore ed esportatore di droga specialmente verso Europa e Stati Uniti. Con conseguenze drammatiche per la popolazione, soprattutto per i giovanissimi.

Pancho ha 38 anni, tre figli, e da tempo deve confrontarsi con la crisi che ha investito i quartieri di Guayaquil. «Prima vivevo a Duran, ma il livello di violenza era tale che quando mi sono sposato ci siamo trasferiti. Solo che non molto tempo dopo, anche il resto del Paese è stato travolto dal caos. Omicidi per le strade, stazioni degli autobus colpite da attentati, persone sequestrate, negozianti ricattati, minori adescati dai narcos… Una sera mia figlia Eugenia mi ha chiesto se anche noi moriremo uccisi. La domanda di quella bambina di otto anni mi ha commosso e mi ha messo in movimento: perché vale la pena lavorare, rimanere in Ecuador, investire la nostra vita qui? La risposta è che anche qui c’è del buono: lo vedo nei miei amici, nel come stiamo insieme a scuola di comunità e da come questo ci rilancia ciascuno nel luogo in cui è chiamato a stare. Questa amicizia, questa certezza che siamo tutti chiamati a un destino buono come Cristo ci ha annunciato, è già un inizio di risposta alla violenza».

Isabel Maria, per lo stesso motivo, si batte come un leone in politica dal 2012 seguendo le orme del padre e del nonno. «I problemi con cui ci confrontiamo sono tanti, ma su questi sono più urgenti la malnutrizione cronica dei bambini, l’uccisione di alcuni bravi politici, il fatto che ci sia stata una crescita esponenziale delle gravidanze tra le adolescenti e il coinvolgimento dei minori con il narcotraffico. Dal 2019 al 2022 c’è stato un aumento del 518% degli omicidi e il 500% di questi riguarda giovani tra i 15 e i 19 anni coinvolti nel narcotraffico. Lo Stato è in grande difficoltà perché la base è totalmente scollegata dalla rappresentanza. Ma al fondo tutto è da ricondurre a un unico punto: manca un’educazione del popolo. Il disastro a cui assistiamo è frutto di una non-educazione che ci ha fatto perdere il senso - come dice anche la Scuola di comunità - delle domande ultime. Io mi impegno in politica perché sono preoccupata per i miei amici, per la mia gente, mi sento una responsabilità addosso enorme. Il fatto di essere madre, di vedere i miei figli crescere qui, mi fa guardare a tutti i giovani dell’Ecuador come a figli miei. Senza l’impegno concreto, anche in politica, le cose non cambieranno. Si possono attivare tante soluzioni come un maggiore controllo per le strade dove ci sono i centri di raccolta della droga, tentare di fermare la diffusione delle armi tra le bande, nuove leggi sul lavoro. Ma tutto questo non basta se non nasce dal desiderio di un bene comune. Penso che nel nostro Paese ci sia un enorme bisogno di riguadagnare il fatto che la politica è una vocazione e che educare a un giudizio sulla realtà - dal quartiere più povero alla sede del Governo - è la prima vera urgenza».

Anche per Alexander, coordinatore ed educatore di Fondazione Sembrar (ong basata a Quito, partner locale di Avsi in Ecuador, ndr), l’educazione è un punto capitale. Lo è per la sua storia personale e per quello che vede quotidianamente nel suo lavoro. Cresciuto a Pisulì, quartiere periferico della capitale dove gli omicidi sono all’ordine del giorno, lavora a stretto contatto con le famiglie più povere e con i minori coinvolti nelle bande criminali. «Sono cresciuto con i miei cinque fratelli e mia madre», racconta. «Ho conosciuto il movimento a 13 anni, quando ero pieno di domande sulla separazione dei miei genitori, sulla povertà della mia casa, sul mio futuro. Pensavo fossero domande sciocche e non ne parlavo mai con i miei amici. Ma Stefi (Stefania Famlonga, Memor Domini e direttrice di Fondazione Sembrar, ndr) e altre donne del Gruppo Adulto che vivono a Quito iniziarono a prendere sul serio quegli interrogativi, mi guardavano come nessuno prima e così ho imparato io stesso a stimarmi di più, a voler studiare e oggi impegnarmi qui a Sembrar. Vorrei questo per tutte le persone che vivono in questa città. Sento una grande responsabilità per la sovrabbondanza che ho ricevuto nella mia vita, e che continuo a ricevere. Qualche tempo fa con Stefi, in una zona a due ore dalla capitale, abbiamo incontrato dei ragazzini di 15-16 anni che erano stati contattati dai boss locali per spostare la coca dal confine colombiano a Quito. Venivano da famiglie agiate: non lo facevano perché poveri, ma per sentirsi potenti. La ricerca del piccolo potere, che aumenta tanto più male fai e quanto più “rispetto” riesci a guadagnarti, è una falsa attrazione per tantissimi giovani. Questo mi ha interrogato: noi adulti cosa ci stiamo perdendo? Non vediamo questi ragazzi, li lasciamo a loro stessi, così i narcos li portano via a uno a uno. Ho pensato a quando da bambino vedevo quelli poco più grandi di me distribuire la droga di notte ai tossicodipendenti di Pisulì. Se non diamo noi una testimonianza di senso, come potranno questi bambini sapere che c’è qualcosa di più grande della droga ad attenderli?».

Pancho concorda con l’amico, queste domande sono state anche al centro del ritiro di Quaresima che il movimento in Ecuador ha tenuto poche settimane fa. «Ha ragione Alex, siamo tutti fatti per cose grandi! Solo che oggi in Ecuador tutti se lo sono dimenticati. Così la maggior parte dei nostri vicini si barrica in casa, mette vetri antiproiettile alle auto, le telecamere sulla porta, le recinzioni elettriche ai cancelli. Invece di guardare e provare a capire come uscire da questa crisi, sceglie di chiudere gli occhi. E noi cosa proponiamo di più affascinante della coca, dei soldi, del potere? Cosa proponiamo che possa accendere la speranza dei nostri ragazzi?».

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Chi educa? È anche la domanda di Isabel Maria. «Se oggi gli adulti non educano più, se le università insegnano che il successo è più importante del servizio al bene comune, se la politica infonde paura e lo Stato latita… chi educa?». È Alexander a tentare una risposta, partendo ancora una volta dalla sua esperienza. «Ho un fratello che da anni sta facendo uso di droga e vedere cosa causa tutto questo alla sua famiglia è terribile. Questo dolore non è risparmiato a nessuno. Molti micro-trafficanti, nella mia zona, fanno moltissimi soldi con lo spaccio. Ma accade spesso che, a un certo punto, siano i loro figli a consumare le stesse porcherie che loro vendono. E quello è il momento in cui iniziano a farsi delle domande, a chiedersi se ha senso tutto il male che loro stessi contribuiscono a diffondere. Io li ho incontrati, li ho ascoltati: abbiamo lo stesso cuore! E vale anche per chi, forse inconsapevole di tutta la sofferenza che crea qui, oggi consuma cocaina in tutta Europa. Abbiamo lo stesso cuore. Un cuore che urla, come la figlia di Pancho o come i ragazzi che incontro nelle strade, il desiderio di vivere».